In #HereAndNow c'è molto del Ball di #SixFeetUnder e #AmericanBeauty. Forse troppo. Tim Robbins+Holly Hunter sprecati e, a tratti, di maniera. Voto: 7⃣
— Leo Damerini (@LeoDamerini) 16 marzo 2018
lunedì 19 marzo 2018
martedì 27 febbraio 2018
Su Sky Atlantic HD torna la grande serialità targata HBO. Da oggi 27 febbraio arriva, in prima visione esclusiva dalle 21.15, "Here and Now - Una famiglia americana", una nuova, ambiziosa produzione del canale via cavo americano firmata da Alan Ball, Premio Oscar per lo script di American Beauty e creatore e showrunner di serie tv di culto come Six Feet Under (9 Emmy Awards), True Blood e Banshee. A guidare il cast, i premi Oscar Tim Robbins (per Mystic River) e Holly Hunter (per Lezioni di piano). I dieci episodi della prima stagione ruotano attorno a una famiglia di Portland (Oregon), i Bayer-Boatwrights, famiglia all’apparenza esemplare, multietnica e progressista. Greg (Tim Robbins), rispettato professore di filosofia e scrittore, la sua maniacale moglie Audrey (Holly Hunter), una consulente che si occupa di risolvere i conflitti nel liceo locale, e i quattro figli della coppia: i tre adottivi, provenienti dal Vietnam, dalla Liberia e dalla Colombia, e la loro unica figlia biologica, la diciassettenne Kristen (Sosie Bacon). Mentre Audrey sta organizzando la festa di compleanno per i sessant’anni del marito, le crepe cominciano ad affiorare. I Bayer-Boatwrights si troveranno infatti ad affrontare una serie di cambiamenti importanti e sfide emotive quando uno dei ragazzi, Ramon (Daniel Zovatto), inizierà a notare delle cose che sono invisibili allo sguardo degli altri. Si tratta di malattia mentale o di qualcos’altro? Prodotta da Alan Ball, Peter Macdissi e David Knoller, attraverso il punto di vista privilegiato di una famiglia così atipica, la serie indaga il sistema culturale americano anche attraverso il ritratto di un’altra famiglia, musulmana e contemporanea, quella di Farid Shokrani (Peter Macdissi, Six Feet Under, Banshee), lo psichiatra che prenderà in cura Ramon e che ha un’improbabile e inspiegabile connessione con il ragazzo. Le due famiglie al centro degli episodi riflettono il potenziale multiculturale dell’America odierna. Nell’affrontare i problemi personali, politici, culturali, spirituali e psicologici che si abbattono sui membri delle famiglie protagoniste, in maniera provocatoria e a tratti tristemente comica la serie prova a dare una risposta alla domanda: cosa vuol dire essere un “altro” negli Stati Uniti di oggi? Nel cast anche Jerrika Hinton (Grey’s Anatomy), Raymond Lee (Mozart in the Jungle) e Joe Williamson (Looking).
martedì 20 giugno 2017
IL FOGLIO
Con "I love Dick" si scopre la...scopata concettuale (una volta era "senza cerniera")
"Dick è manzo. Scopate concettuali e passioni divoranti (con stalkeraggio) nell'ultima serie di Soloway. Oh madonna, è terribile. Così lento". Dialogo in italiano, in una serie americana. Due selezionatori della mostra di Venezia stanno guardando, slogandosi la mascella, un film di Chris Kraus, regista femminista e sperimentale, nel bianco e nero che attira l'aggettivo "rigoroso". Accade nella serie "I love Dick" (su Amazon). L'ultimo lavoro di Jill Soloway che cominciò come sceneggiatrice per i becchini di "Six Feet Under". E' diventata celebre con "Transparent", la serie sul padre di famiglia che annuncia: ho sempre voluto vestirmi da donna, ora che siete grandi lo farò. Per l'occasione ha rispolverato un romanzo di Chris Kraus uscito nel 1997, appunto "I love Dick", celebrato e poi dimenticato (esce da Neri Pozza). Spara altissimo il Guardian: "Il più importante romanzo sugli uomini e le donne del Novecento", imitato dal New Yorker e da Rick Moody, brillante romanziere che riconobbe un suo antenato in un racconto di Nathaniel Hawthorne, "Il velo nero del pastore". In materia di uomini e donne non ci sentiamo di garantire. Abbiamo goduto invece la satira sul postmodernismo e sugli intellettuali. Da accoppiare al film vincitore del Festival di Cannes, "The Square" di Ruben Ostlund. Lì c'erano artistici mucchietti di ghiaia, qui al museo viene esposto un mattone. Quando cade e va in pezzi, panico generale: e adesso chi lo dice all'artista? Scrittrice, regista, docente di cinema all'European Graduate School di Saas-Fee(stazione sciistica Svizzera, l'altro campus è a Malta) Chris Kraus racconta la sua passione divorante per un certo Dick. Completa di stalkeraggio pesante, via lettere e avance, con la complicità del marito francese Sylvère: quindici anni di più e una certa stanchezza sessuale. Però, essendo intellettuali, si raccontano ogni cosa e inventano "The Conceptual Fuck", la scopata concettuale. Neanche Dick è un personaggio di fantasia. Nella realtà si chiama Dick Hebdige, professore di Art e Media Studies all'Università di Santa Barbara, California. Inglese, non aveva trent'anni quando diventò famoso studiando i punk ("Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale", da Costa e Nolan). Poi si è occupato di "desert studies", roba che non riusciamo neanche a immaginare, e di performative criticism (forse vuol dire che un critico invece di scrivere si scatena in un dripping à la Pollock). Jill Soloway se ne frega di Derrida e della "fiction teoretica" — si dice cosi, tra i philosophes, quando una persecuzione amorosa produce abbastanza lettere da ricavarne un'opera d'arte alla Sophie Calle (la performer che ha arruolato 107 attrici per leggere il messaggio di un uomo che la piantò). Sposta la storia a Marfa, Texas, dove la coppia vive per qualche mese in una comunità di artiste, tutte femministe e tutte scatenate, molto somiglianti a Clara Charnofsky, prima moglie di Barney Panofsky in "La versione di Barney". Parlano di cross-pollination tra le arti, e intanto come Chris Kraus non riescono a staccare gli occhi da Dick, l'attore Kevin Bacon in versione — come si potrebbe dire? non viene in mente altra parola che "manzo"". (Mariarosa Mancuso)
martedì 1 marzo 2016
Articolo tratto da "Corriere Economia"

Netflix, il cui palinsesto è caratterizzato da contenuti più innovativi, costa fra i 7,99 e gli 11,99 euro al mese e offre circa 80 cofanetti televisivi. Le maratone sono il segnale evidente della trasformazione della televisione. Cambiano i contenuti televisivi, che diventano virali: il calcio e il cinema non sono più la principale attrattiva per abbonarsi a una pay-tv. E cambia anche il modello di fruizione, che passa da «lineare» a «non lineare». Dal consueto palinsesto a orario settimanale oggi si può guardare la televisione dove si vuole, quando si vuole e soprattutto quanto si vuole. Negli Stati Uniti, e a cascata anche in Italia, è in crescita esponenziale il fenomeno del «Binge Watching»: l'abitudine di fruire delle serie televisive in maniera compulsiva, guardandone tutti i singoli episodi uno dietro l'altro, in forma di maratone televisive della durata di un intero fine settimana. Fenomeno confermato dall'osservatorio di Sky Italia che nelle passate festività natalizie (dal 25 dicembre al 3 gennaio 2015) ha registrato un picco record di 1,4 milioni di puntate di telefilm viste, su circa 70 milioni nell'ultimo biennio. Ora Sky si appresta a lanciare il nuovo servizio dedicato alle serie televisive. Negli studi di Milano si affrettano a precisare che non è una risposta a Netflix, ma le similitudini con le modalità di fruizione televisiva introdotte dal gigante californiano sono innegabili. Box Sets partirà trasmettendo l'attesissima prima puntata della quarta serie di House of Cards, il telefilm-cult con Kevin Spacey che, pur prodotto da Netflix, rimarrà in Italia un'esclusiva di Sky sino alla sua conclusione. L'uso ai contenuti di Box Sets sarà gratuito per tutti gli abbonati di Sky dotati del decoder MySky Hd e non si potrà acquistare a parte. Sarà un canale, un gigantesco serbatoio che punta a riunire tutti i pill celebri telefilm della recente storia televisiva, suddivisi in cofanetti (50 già disponibili al lancio per circa 1.500 puntate, 100 previsti entro fine anno), completi di tutti gli episodi delle stagioni andate in onda. E se il palinsesto di Netflix si basa quasi solo su eccellenti ma poco pubblicizzate produzioni proprietarie, il colosso di Murdoch può attingere liberamente alle produzioni di Fox, Hbo, Cbs e Amazon, includendo nel catalogo della nuova offerta titoli come il già citato House of Cards, Game of Thrones, Criminal Minds, I Soprano, True Detective, Dexter, Californication, The Knick, Six Feet Under, Gomorra, Les Revenants, Mozart in The Jungle, In Treatment, The Killing, Transparent e classici come Twin Peaks e Lost. Nelle intenzioni di Sky, Box Sets dev'essere un punto di riferimento per gli appassionati e un compendio completo per i tanti utenti ( 20% all'anno dal 2013) che scoprono solo oggi che le serie tv stanno superando il cinema per investimenti economici e cast stellari. Persino il regista Quentin Tarantino, intervistato in occasione della prima del suo recente The Hateful Eight, non ha escluso che la sua prossima produzione possa essere uno sceneggiato seriale.
giovedì 23 aprile 2015
CORRIERE DELLA SERA
In "Banshee" il male si insinua in un recinto protetto
"Vale la pena dare un'occhiata a «Banshee - La città del male», la serie americana che tra i suoi produttori esecutivi vanta una firma molto prestigiosa, quella di Alan Ball. Dopo la raffinata saga della famiglia di «sotterramorti» raccontata in «Six Feet Under» e dopo «True Blood», il fantasy popolato da vampiri e altre creature sovrannaturali, Ball è tornato alla tv con un telefilm realizzato per il canale Cinemax (legato al celebre HBO). «Banshee», di cui su Sky Atlantic è iniziata la seconda stagione, prende il nome da una minuscola cittadina dove tutti si conoscono e ai cui margini vive una piccola comunità Amish, un gruppo di protestanti di origine tedesca che vive di agricoltura e rifiuta il progresso tecnologico, basando la propria identità e la propria organizzazione sociale su indissolubili legami familiari (venerdì, ore 21.10). Il punto di partenza della serie è un furto d'identità: un misterioso ex detenuto esce di prigione e si spaccia per Lucas Hood, appena nominato sceriffo della città. Il suo obiettivo è ritrovare l'amante e complice Anastasia, che vive proprio a Banshee insieme alla nuova famiglia che si è costruita. Le cose non filano proprio lisce e presto la cittadina si rivela piena di lati oscuri e terribili segreti, soprattutto legati al boss criminale Kai Proctor, che Hood deve gestire. Va a finire che il male s'insinua anche nel recinto protetto della comunità Amish e nella riserva indiana che costituisce l'ambiente principale della seconda stagione. Se una delle tendenze più forti delle serie contemporanee è quella di puntare tutto sull'approfondimento psicologico dei personaggi, sull'evoluzione dei loro caratteri, «Banshee» segue una strada diversa: racconta la sua storia con uno stile visivo molto forte, sfacciato, e basa il suo fascino su colpi di scena continui e sequenze d'azione molto d'impatto. Tra i suoi creatori c'è anche il romanziere Jonathan Tropper". (Aldo Grasso, 20.04.2015)
giovedì 3 luglio 2014
(ANSA) - ROMA - All'improvviso e senza una spiegazione plausibile, il 2% della popolazione mondiale sparisce. The Leftovers, pero', e' molto di piu': e' il racconto del dramma di coloro che restano (i "leftovers" appunto), quelli che, distrutti da un evento misterioso, lottano per una vita che deve continuare. The Leftovers, la nuova serie evento targata HBO, arriva su Sky Atlantic HD da stasera con una prima visione a pochi giorni dalla premiere americana. Adattamento televisivo dell'omonimo romanzo "Svaniti nel nulla" di Tom Perrotta, definito da Stephen King come "il miglior episodio di Ai confini della realta' che abbiate mai visto", The Leftovers e' stata scritta e prodotta da Damon Lindelof, co-creatore della serie cult Lost con all'attivo le sceneggiature di Prometheus, Star Trek e World War Z. Le dieci puntate della serie prendono il via tre anni dopo questo fenomeno tragico e misterioso, soffermandosi non tanto sulle ripercussioni a livello planetario, bensi' su cio' che accade ad una piccola comunita' del New Jersey, gli abitanti della cittadina di Mapleton. Con un ribaltamento del punto di vista, per cui al centro della vicenda non ci sono gli scomparsi, Lindelof propone l'affresco di una comunita' in costante lotta per mantenere una parvenza di normalita' malgrado tutto. Uno specchio che riflette debolezze, frustrazioni, ma anche speranza e voglia di combattere per il proprio futuro. Dove la ragione non riesce a dare un'interpretazione plausibile, si andra' a creare lo spazio per nuovi culti e sette misteriose, anche se la spiegazione di tutto cio' che sta avvenendo potrebbe essere da sempre sotto gli occhi di tutti, in quei passi della Bibbia che preconizzano il rapimento della Chiesa. Il cast e' d'eccezione: Justin Theroux (Mulholland Drive, Six Feet Under) interpreta il capo della polizia Kevin Garvey costretto a confrontarsi costantemente con i problemi della comunita' ma anche quelli all'interno della propria famiglia. La moglie Laurie e' interpretata da Amy Brenneman e, tra le eccellenze del cast, Liv Tyler (Io ballo da sola, Armageddon, La trilogia de Il signore degli anelli) nel ruolo di Meg Abbott. Christopher Eccleston (The Others) interpreta il reverendo Matt che, di fronte al misterioso caso non perde la fede: sa esattamente a cosa si trova davanti. Tutto cio' di cui ha bisogno e' che la gente abbia fiducia in lui.
venerdì 14 febbraio 2014
venerdì 6 settembre 2013

1 - THE WIRE
2 - THE WEST WING
3 - I SOPRANO
4 - MAD MEN
5 - 24
6 - LOST
7 - THE GOOD WIFE
8 - BREAKING BAD
9 - SIX FEET UNDER
10 - DESPERATE HOUSEWIVES
11 - CURB YOUR ENTHUSIASM
12 - SEX AND THE CITY
13 - GAME OF THRONES
14 - THE OFFICE
15 - MISFITS
16 - DR. HOUSE
venerdì 5 luglio 2013
La rossa Sarah Rafferty di "Suits" ha avuto un’illuminazione degna di “Sliding Doors”. Quando era adolescente, l’insegnante di teatro le chiese di saltare una partita di hockey della squadra del college dove era una grande promessa, dall’alto dei suoi 1.72 metri di altezza, per sostituire all’ultimo minuto una compagna di classe nella recita del “Riccardo III”. Una folgorazione. Poi una sfilza di passaggi in serie tv di grido (da “Streghe” a “Six feet under”, da “Bones” a “CSI: Miami”), per approdare infine al primo ruolo ricorrente in “Suits” (Italia 1, in prima tv free dal 10 luglio ogni mercoledì in seconda serata), dove interpreta Donna Paulsen, legata a doppia mandata – personale e professionale – all’avvocato protagonista Harvey Specter (Gabriel Macht). Un’unione che travalica il set: Rafferty è amica del cuore di Macht da oltre 20 anni. (News tratta dalla Newsletter di Qui Mediaset)
giovedì 1 novembre 2012

martedì 30 ottobre 2012
martedì 19 giugno 2012
GOSSIP - Stana(ta)! La Katic di "Castle" mai così sexy

domenica 27 novembre 2011
Articolo tratto da "La Lettura", inserto culturale del CORRIERE DELLA SERA, del 25.11.2011
Se esce ancora un libro o un articolo che si piange addosso per la morte del romanzo, giuro che sottopongo l’autore alla cura Ludovico, quella di Arancia meccanica. Salvo che, al posto delle immagini di violenza e della Nona di Beethoven, gli proietto, con l’aiuto di mollette che lo costringano a tenere gli occhi ben aperti, Mad Men o The Wire. Va bene, diamo per scontata la morte del romanzo, la fine della letteratura e lo svuotamento del più borghese e cristallizzato tra i generi. A un patto, però. Se l’editoria, specie quella italiana, risulta infatuata di falsi romanzi non è colpa della forma-romanzo. Sì, forse non ci sono più i romanzi di una volta (come le mezze stagioni e i prati della periferia), quelle grandi narrazioni che rispecchiavano e insieme criticavano la società, ma se continuiamo a cercare qualcosa in cui l’autore, attraverso dei personaggi, prende in esame alcuni grandi temi dell’esistenza, beh, allora forse è venuto il momento di dare un’occhiata non solo ai libri ma anche ad altre forme narrative, ad altri media. Tipo la serialità americana.
Quanto a scrittura, al romanzo si chiede di darsi per intero in ciascuno dei suoi frammenti, in ciascuna delle sue manifestazioni; sul supporto cartaceo o su quello schermico ciò che muta è il linguaggio, non la forma-romanzo. Tempo fa, Jonathan Franzen dichiarava che le serie tv «stanno rimpiazzando il bisogno che veniva soddisfatto da un certo tipo di realismo del XIX secolo. Quando leggi Dickens ottieni gli stessi effetti narrativi che ti danno le serie tv…».
In un celebre discorso, Milan Kundera sosteneva che il bene più prezioso della cultura europea — il suo rispetto per l’individuo, il suo rispetto per il pensiero originale — è deposto «come in uno scrigno d’argento nella storia del romanzo, nella saggezza del romanzo». Dobbiamo purtroppo prendere atto che questa saggezza non appartiene più all’Europa, da tempo si è trasferita altrove, in contrade che credono ancora ai sogni, anche a quelli culturali.
La mossa di Franzen
Quando è uscito l’ultimo romanzo di Franzen, Libertà, a proposito delle non poche polemiche suscitate dal libro, Francesco Pacifico, intervistato da Mariarosa Mancuso alla radio svizzera, ha fatto un’osservazione molto importante: Franzen manda indietro l’orologio del genere romanzo per vincere la battaglia contro la nuova grande forma d’arte del nostro tempo, la serialità televisiva di alta qualità, che ha già capolavori assodati in Six Feet Under, Sopranos, Mad Men eThe Wire, opere di sorprendente complessità, varietà e generosità narrativa, umana e tematica, e al contempo di largo consumo.
La forma-romanzo, dunque, non è morta ma migra verso nuovi e differenti media. Si tratta di un processo che possiamo osservare in tutta la sua vitalità oggi che il mondo della comunicazione è al centro di un profondo e radicale cambiamento. I media si ibridano, si fondono e, insieme con loro, cambiano i modi di distribuire e consumare i contenuti. Com’è noto, si tratta del fenomeno della convergenza, che tecnicamente sta a significare l’unione di più mezzi di comunicazione, un amalgama reso possibile dalla tecnologia digitale. La convergenza non è solo un processo tecnologico, o scandito dalla tecnologia, è anche un cambiamento antropologico, un’attitudine culturale che incoraggia gli utenti a creare connessioni tra diversi testi, a usare le tecnologie sempre meno come strumenti per comunicare e sempre più come nuovi territori da scoprire, e i media non come semplici protesi, ma piuttosto come ambienti in cui siamo immersi e in cui viviamo la nostra esperienza quotidiana.
La convergenza è una tendenza al meticciato che coinvolge sia le tecnologie e i device che i linguaggi e le forme testuali: anche quelle più consolidate e archetipiche come il romanzo si modellano e si plasmano intorno a nuovi «contenitori». La serialità televisiva, certo. Ma anche altri media presentano tracce evidenti della persistenza di un modello narrativo che trova nuova linfa in forme che non ti aspetti: per esempio, molti dei videogame più recenti e di successo sono modellati sul canonico «viaggio dell’eroe» che Joseph Campbell ha identificato come la formula narrativa alla base di molta letteratura.
L’aspetto più curioso è che molti scrittori stanno iniziando a confrontarsi con la tv, o almeno con il suo genere più «nobile». Negli Stati Uniti, il dibattito è in corso ormai da tempo. Gary Shteyngart, l’autore di uno dei romanzi più discussi e letti degli ultimi tempi in America, Super Sad True Love Story, intervistato da «The Atlantic» ha parlato del grande cambiamento che la narrativa contemporanea sta attraversando e di quanto pesi il confronto con la tv: «Canali come Hbo e Showtime stanno conquistando tutti. La tipologia di artifici narrativi che sono sempre apparsi in forma di romanzo, ora compaiono in serie come The Wire e Breaking Bad. Queste serie innescano la “spinta narrativa” che chiediamo, ci insegnano diversi mondi e diversi modi di vivere. Ma, allo stesso tempo, non richiedono un’immersione testuale totale. Siedi semplicemente lì e lasci che tutte queste cose accadano sullo schermo». Nomini brand come Hbo e Showtime e, a proposito di tendenze culturali, pensi a cosa un tempo erano Einaudi e Adelphi.
Che la contaminazione tra letteratura e serialità televisiva di qualità sia un processo innescato in modo irreversibile è ormai evidente da altri numerosi segnali: lo stesso Franzen sta lavorando a un adattamento tv de Le correzioni; una delle serie più belle degli ultimi anni, prodotta da Hbo, è Bored to Death, letteralmente «annoiati a morte» ideata e sviluppata dallo scrittore Jonathan Ames a partire da un suo racconto. Alla rivista «Link. Idee per la televisione», Ames ha spiegato: «Come romanziere sono abituato a fare il direttore della fotografia, il costumista, l’editor, persino l’Hbo: prendo tutte le decisioni da solo. A dire il vero non trovo che sia così differente dallo scrivere un romanzo. Ogni puntata, in un certo senso, è come un capitolo: non vedi ancora dove andrai di preciso con il capitolo successivo, e non sai neppure se ti sarà permesso di arrivare fino alla fine».
Insomma, tra il romanziere e la figura dello showrunner il velo di separatezza sembra essere sempre più sottile, tanto che il processo vale anche all’opposto: grandi executive producer seriali come Aaron Sorkin, J.J. Abrams, Matthew Weiner e David Simon si sono guadagnati sul campo la qualifica di «autore», un tempo prerogativa esclusiva dei territori «nobili» della letteratura edel cinema. Se mai la serialità ha fatto giustizia di quella Nozione d’Autore che ha contribuito a creare non pochi equivoci, specie in Italia. Il valore della scrittura è generato da una sorta di qualità plurale che tiene a bada il narcisismo autoriale, le manie di grandezza del singolo scrittore. La serialità è un misto di creatività individuale e progetto industriale, di invenzione e ripetizione, di originalità e rimandi. Rivela nuove dinamiche della scrittura, nuovi ritmi imposti dalla produzione e nuove attenzioni al pubblico.
Da alcuni anni, da quando è apparsa una delle prime serie di culto come Star Trek, e poi da Weeds a Lost, da Bored to Death a Breaking Bad, i telefilm raccontano storie affascinanti per parlare anche d’altro. Le immagini non vogliono soltanto dire quello che mostrano, ma vibrano in continuazione, rimandano a un mondo dissimulato, ad alcuni significati inesauribili, a un altrove che non conosciamo e che promettono di farci perlustrare. La sensazione è che gli strumenti narrativi dei telefilm americani lavorino per un linguaggio sciolto da ogni vincolo di obbedienza ideologica o sociale, si abbandonino al puro gusto di narrare.
Educazione sentimentale
Il dato più significativo per cogliere la persistenza della forma-romanzo e la sua rigenerazione attraverso nuove sembianze mediali è forse questo: non solo le serie tv sono ricolme di citazioni attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro, ma allo stesso tempo trasudano strutture narrative, tecniche figurative, procedimenti «rubati» a modelli alti, a forme di racconto più antiche. È difficile che un ragazzo si accosti ancora alla grande narrativa ottocentesca. Ma è molto probabile che in alcune serie trovi orme di soluzioni linguistiche tratte da quegli autori (ben conosciuti dagli sceneggiatori). Succede, insomma, che l’educazione sentimentale degli adolescenti di tutto il mondo si formi ora sui «teen drama »: non più sul romanzo ma sul telefilm di formazione. Nelle forme espressive della serialità televisiva, la cultura americana ha trovato lo spazio ideale per dare forma di racconto a una visione del mondo, per restituire un’immagine della società dispiegata attraverso un impianto narrativo che renda ragione della sua complessità. È quello che in Italia spesso non si riesce a fare, perché il racconto del Paese è stato demandato ai generi televisivi più bassi, prigionieri di un’estetica e di una cultura che dal neorealismo in avanti (a parte poche eccezioni) ha rinunciato alla possibilità di «pensare in grande».
Aldo Grasso
sabato 19 novembre 2011
Stracult e Stracotti - …ovvero la serie che questa settimana va su e quella che inevitabilmente va giù. Parola di Stargirl!

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Nonostante le alte aspettative e le ottime prerogative, la serie DOWN di questa settimana è Ringer, interpretata da Sarah Michelle Gellar. Ideata da Eric Charmelo e Nicole Snyder, Ringer ha debuttato lo scorso 13 settembre sulla CW, riscuotendo sì un discreto successo soprattutto tra i fan dell’ex “AmmazzaVampiri”, ma convincendo sempre meno a livello di plot, episodio dopo episodio. Tema portante della serie, sulla falsa riga del pluripremiato The Black Swan, il dualismo, in questo caso tra due sorelle gemelle, alimentato da vorticosi giochi di specchi, inquietanti proiezioni visive e prevedibili scambi di personalità. Bridget è un ex tossicodipendente testimone chiave di un delitto in uno strip club, che a poche ore dal processo in cui deve deporre ai danni del pericoloso pluriomicida, in preda al panico si dà alla fuga negli Hamptons, alla ricerca della sua gemella Siobhan. Riunitesi dopo sei anni di lontananza, e in seguito a un tragico incidente di cui per ora restiamo all’oscuro, le due sorelle partono per un giro in barca a mare aperto, da cui però Siobhan non farà mai ritorno, scomparendo misteriosamente. Bridget vede così una papabile via di fuga, coglie la palla al balzo e s’insinua nella vita della gemella, approfittando del fatto che nessuno è a conoscenza della sua esistenza. Il passato torbido di Siobhan non tarda però a venire a galla, e per Bridget iniziano i guai e senza rendersene conto, resta inghiottita in questo “mondo parallelo”, mentre da Parigi, la gemella presumibilmente defunta, trama ai suoi danni. Prendendo spunto dalla maggior parte dei thriller psicologici di questi ultimi anni, Ringer parte bene per sprofondare però nell’ovvietà, vittima della mancanza di colpi di scena plausibili e credibili. Enormi lacune nella regia smorzano purtroppo quella ricercata atmosfera inquietante e vagamente hitchcockiana che si vuole dare alla serie, scadendo nel b-movie di serie B, spesso privo di un filo logico che unisca gli eventi.
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