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domenica 7 gennaio 2018

martedì 13 aprile 2010

LA VITA E' UNA COSA SERIAL - “Lost”, la realtà parallela è vera arte?
Ma la scontatezza può essere un’arte? Sono cresciuto con l’idea che l’Arte coincidesse con l’innovazione, la sperimentazione, l’originalità; che avesse crismi rivoluzionari, che il suo motto fosse quelo di essere non al passo coi tempi, ma un passo in avanti (forward). Poi mi sono imbattuto, disgraziatamente, nei flash sideways dell’ultima stagione di “Lost”. Se Nanni Moretti urlava a scuarciagola “No, il dibattito no” in “Io sono un autarchico”, mi verrebbe da prendere un megafono e lanciare l’allarme “No, la realtà parallela, no!”. La “mirabolante” trovata ha spiazzato i più. Anche qualcuno, addirittura, tra i fans più incalliti. Ma dico io, uno segue per anni la serie con più misteri ed interrogativi della tv e poi cosa ti ritrovi? Che molte risposte si trovano in un microcosmo a margine, una sorta di ileostomia virtuale. Troppo scontato. Al limite della banalità. Roba da rivalutare il fondo più nero dell’intero serial: quando a Charlie è apparsa in visione la (pseudo) Madonna on the beach. Al confronto sono da considerarsi capolavori assoluti i finali di “A cuore aperto” (1982) – in cui si svelava che tutto il serial non era niente altro che il sogno di un bambino autistico – di “Pappa e Ciccia” (1988) – le vicende narrate erano fantasie della protagonista che stava scrivendo un diario – o, addirittura, la famigerata doccia sotto la quale si addormentava per un’intera stagione Bobby Ewing in “Dallas” (1978). Francamente, senza peli sulla lingua e dicendola fantozzianamente, quella di “Lost” mi puzza come “una cagata pazzesca”. Ma la delusione fa sorgere un’ulteriore questione “a margine”, se vogliamo “parallela” a quella avviata su Joss Whedon nella rubrica “Nano Nano” un paio di numeri fa del magazine: J.J. Abrams è davvero un genio? Più incompiuto che incompreso, ha sempre cesellato le sue produzioni come montagne russe: picchi estremi di qualità quando era presente, discese spericolate quando bigiava col cinema (altra realtà parallela!). Non a caso, forse, è “Felicity” la serie che più ha mantenuto costante la sua rotta (sebbene inferiore alle altre in quanto ad innovazione). Era il periodo quando doppio J non aveva ancora velleità cinematografiche. “Alias” è stato quello che ha mantenuto di più le promesse al fulmicotone, tranne verso la fine; “A proposito di Brian” già partiva zoppo per aver ingaggiato Raoul Bova; “Sei gradi di separazione” aveva dietro un’idea forte, avviata egregiamente ma che poi finiva in un vicolo cieco (come molti telefilm del “bulimico” Abrams, uno che nel futuro immediato ha in cantiere ben 12 progetti, tra cinema e tv!). Unica eccezione “Fringe”: partito moscio e con l’ombra di “X-Files” sulle spalle, ha saputo trovare la sua cifra dalla seconda stagione. Già immagino l’alzata di scudi dei seguaci più incalliti – si veda a tal proposito cosa scrive il docente di Filosofia Simone Regazzoni nella rubrica “Edicola di Lou” – pronti a difendere a spada tratta Abrams anche se sull’isola, al posto dell’Orso Polare, fosse comparso Bombolo che sbofonchiava “tze, tze, c’ho tutte le scarpe piene di piedi” come in “Delitto al Blue Gay”. Mi viene in mente quella scena in cui Woody Allen, in fila per vedere un film impegnato al cinema, incappa in una coppia che si masturba di aggettivi ridondanti all’indirizzo del regista. La realtà – parallela o meno - è un’altra: che sempre meno si ha il coraggio di criticare i telefilm, anche e soprattutto in senso negativo. E’ tutto un incensare, applaudire, osannare. Giusto farlo fino a qualche tempo fa: raramente trovavi una mela marcia in un cesto. Come se ci fossero solo Cult e Stracult e dimenticassimo i Cotti e Stracotti. Il caso di “Lost”, ripeto, è emblematico. A più d’uno è parso che gli sceneggiatori siano ricorsi all’espediente dei flash besides perché “non sapevano più che pesci pigliare”. In pochi lo hanno ammesso. Meglio giustificare: che figata, la realtà parallela, come uno specchio in cui rifletterci, che genialiata! A mio avviso bisognerebbe invece riattivare quel senso critico – ripeto, anche negativo e tranchant – che si è perso per strada. Non è un caso che il genere seriale conosca la stagione peggiore degli ultimi anni. In piccola parte, anche perché è vissuto nella bambagia di commenti troppo benevoli. Ha fatto la fine di certi cineasti definiti “intellettuali”: a parlarsi addosso. A compiere giri concentrici. Si è prese troppo per buone produzioni che non meritavano poi tanto; i girasoli hanno faticato a risaltare tra tante erbacce spacciate per dalie azzurre. Così si rischia di ritornare ai tempi in cui i telefilm erano “roba di nicchia” (lo sono acora in un certo senso, ma sono stati perlomeno sdoganati a livello culturale agli inizi degli anni 2000), visti solo dai fanatici che mai e poi mai si lancerebbero nella celebre espressione fantozziana. Naturalmente, lo spero e ne sono convinto, sarò smentito dal finalissimo di “Lost” che sarà stratosferico, inimmaginabile, eccezionale. Sarà vera Arte e la metteremo da parte. In Dvd o Blue-Ray che sia…(Articolo di Leo Damerini su "Telefilm Magazine" di Aprile)

lunedì 8 gennaio 2007

BOLLETTINO - Sit-com, bye-bye con qualche rimpianto
Ne sono passate di risate finte sotto i ponti televisivi da quel lontano 1997, anno in cui si contavano ben 62 situation-comedy nei palinsesti d'inizio di stagione. Se oggi se ne contano in America solo 20, una ragione ci sarà. Non che dopo l'11 settembre 2001 gli americani abbiano dimostrato, giustamente, una gran voglia di ridere - con la conseguente chiusura di serie-moloch come "Frasier", "Tutti amano Raymond" o "Friends" - ma sospinto da alcune perle come "Arrested Development", "My name is Earl" e "Everybody hates Chris", il genere sit-com sembrava in leggera ripresa. Quest'anno tuttavia, nonostante il boom di ascolti e le critiche entusiastiche per "The New Adventures of Old Christine" con Julia-Louis Dreyfus (icona femminile del filone negli anni '90, esplosa in "Seinfeld" nel ruolo di Elaine Benes) e la conferma di "Due uomini e mezzo" - uniche due sit-com presenti nei 30 programmi più visti del 2005/2006 - si parla già di de profundis. Quando "La Famiglia Partridge" dettava legge e ciuffi a caschetto correva l'anno 1970-1971 e nella Top 30 si contavano già altre 5 sit-com. Nella stagione 1975-76 "Laverne&Shirley" stappavano bottiglie di birra in compagnia di altre 15 serie in cui si rideva per finta. Nel 1980-81, con 11 sit-com nei 30 programmi più visti di stagione, si registrava un boom di spin-off (tra i quali svettava "I Jefferson" nata da "Arcibaldo"), nonchè un'inversione di tendenza che si sarebbe fermato solo nel 1984, con l'avvento de "I Robinson". Nel 1985-86 il genere conosceva anche un lieve impegno politico-sociale con "Casa Keaton" (13 sit-com nella Top 30). Su a salire fino al climax del 1990-91, anno in cui le situation-comedy imperarono con ben 20 presenze su 30, capitanate da "Pappa e ciccia" e "Cin cin". Nel 95-96 si calava a 14 pur annoverando il culto di "Seinfeld". Nel 2000-2001, prima del crollo delle Torri Gemelle e del suo effetto Big Bang sulla tv americana, si contavano 9 sit-com nella Top 30. Oggi siamo alle due succitate. Semplice crisi creativa o c'è di più? "Una volta gli sceneggiatori arrivavano dalla strada, portando con sè tutti i fermenti dell'epoca - ricorda un produttore esecutivo dello star-system americano che vuole rimanere anonimo - oggi escono tutti dall'università e hanno pochissima esperienza di vita e molta voglia di guadagnare. E poi è tutto prestabilito, privo di iniziativa. Ci sono anche i format da vendere: se vuoi una sit-com alla CBS devi trovare un grassone con moglie affascinante della media borghesia, se punti all'NBC trova protagonisti giovani e arrapati, possibilmente newyorkesi, se vai all'ABC è meglio che ci siano un pò di bambini pestiferi. E' chiaro che il pubblico non ne possa più". Tocca ad uno sceneggiatore altrettanto anonimo dire la sua: "dopo 'Seinfeld' e 'Friends' è difficile creare qualcosa che non gli assomigli. Oggi i network badano meno alle storie e più alle riprese. Adesso va di moda la telecamera unica come in 'My name is Earl' e 'The Office'. Si punta molto alla velocità e al montaggio sporco, meno ai contenuti. Ma questa frenesia aiuta solo a risparmiare e non penso sia recepito dal pubblico come un nuovo stile, quanto come una povertà di idee che lascia il tempo che trova".
(Articolo di Leo Damerini tratto dal Bollettino dell'Accademia apparso sul "Telefilm Magazine" di gennaio)

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