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giovedì 29 giugno 2017

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri

LA STAMPA
"Goliath" regge su un Billy Bob Thornton da Emmy
"Ci sono serie tv che si reggono sulla scrittura, altre, molto più rare (e, spesso, molto più costose), che trovano nella regia il loro punto di forza. E poi ci sono serie come Goliath, legal drama disponibile su Prime Video, che riescono ad appassionare il pubblico grazie al loro cast. Nel caso di Goliath, il cast, che pure può vantare nomi eccellenti, si riduce ad un uomo solo; si riduce a Billy Bob Thornton, attore, cantante, paroliere, scrittore (ha vinto un Oscar per la migliore sceneggiatura non originale con SlingBlade) e musicista. E lui, con la sua faccia, la sua voce, la sua capacità di riempire e di stare sullo schermo, che rende questa serie, una delle più chiacchierate per i prossimi Emmy Awards, una buona serie. La storia è una di quelle già viste e già sentite: avvocato non più di successo si ritrova a vivere solo e sconsolato in un appartamento di periferia, a bere e a ubriacarsi quasi ogni sera, divorziato, triste, con una figlia adolescente, e combattuto dal senso di colpa. A un certo punto gli si presenta la possibilità di redimersi. Contro di lui, però, c'è il suo vecchio studio, lo stesso che ha contribuito a fondare; c'è il suo vecchio socio in affari, misterioso ed ennesimo cliché, e c'è la sua ex. Qui Thornton dà il meglio di sé. La trama è una miscela di complottismo e di riscatto. Ci sono i colpi di scena, c'è un sali e scendi di toni, di musiche, di narrazione. C'è una bella location, e ci sono anche richiami all'attualità. Ma tutto, alla fine, si riduce al volto di Thornton, al suo personaggio, a Billy McBride, al suo modo di essere contemporaneamente un vincente e un perdente. Nel marasma di scene annacquate e unite fiaccamente tra loro, restano pochi momenti indimenticabili, dotati di una forza rara, grezza, che riescono ad andare oltre il formato seriale, e a diventare qualcos'altro. In questa serie, sono i momenti che Billy passa al bar, da solo oppure in compagnia, mentre fa le parole crociate, parla con la barista, si infiamma la gola con un vecchio liquore; sono queste scene, frame sporcate da una penombra eccessiva e - va detto - da una fotografia non all'altezza, che catturano l'attenzione dello spettatore. In Goliath la qualità è un ingrediente fondamentale, un ingrediente ricercatissimo e, per questo, elargito con parsimonia. E la qualità della recitazione, della bravura di Thornton di sapere stare al gioco, di rendere l'incredibile credibile. Ed è la qualità di un racconto che riesce a regalare al pubblico un personaggio a cui potersi affezionare". (Gianmaria Tammaro)

mercoledì 15 marzo 2017

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri
IL - Magazine de Il Sole 24 ore
Ecco perché "Big Little Lies" è la serie dell'anno
"Big Little Lies è come l’incidente sulla carreggiata opposta: sei sempre lì a guardarlo ma non sai perché. A ben vedere motivi ce ne sarebbero eccome, a cominciare dal livello interpretativo di un cast notevole. C’è un’intensa Nicole Kidman, madre di gemellini-Ken e moglie sbertucciata di banchiere milionario nonché formidabile performer a chiamata su Skype; un’ancor più formidabile Reese Witherspoon nella parte del personaggio che più di tutti lombrosianamente pare assomigliarle, una grintosa piccoletta dai desideri più grandi – e sconci – della propria estensione alare, un’instancabile parlatrice a tacco dodici diurno, una madre apprensiva, una moglie così. Sono madri anche la terza e quarta protagoniste femminili: la milionaria Renata (pronuncia “r’na’duu”), appena entrata nel board di PayPal e fiera proprietaria di casa scarfaceiana vista oceano e – qui un po’ meno fiera – di marito barbudo mezzo scemo del tipo che fuma di nascosto un tiro di sigaretta all’anno e si fa pure beccare; e Jane, la madre “chi vive in baracca”, costretta a tirar su da sola un ragazzetto dal volto ceruleo di nome Ziggy. Sono tutte madri perché la miniserie – sette puntate in onda su Hbo a partire dal 19 febbraio e su Sky Atlantic dal 15 marzo – si sviluppa intorno a una scuola elementare fighetta di Monterey, la prima capitale della California, già in stato di semi-abbandono negli anni 90 prima che i denari della Silicon Valley la ripopolassero ai principi del millennio. La vicenda – che è poi tratta dall’omonimo romanzo aussie di Liane Moriarty, adattato per la tv da quel David E. Kelley già ampiamente raccontato su queste pagine a partire dal recente Goliath in giù (The Practice, Ally McBeal, LA Law) – dipana da qui, dalla classe dei bimbi, per poi allargare a comprendere tutto un insieme di insta-classics montereyani: i grandi terrazzamenti privati sull’onda del Pacifico che si infrange un metro sotto, il bar sul molo per i discorsi tra ragazze post liberazione da pargolo, i capienti Suv molto ben assettati aerodinamicamente che accarezzano le curve a picco sulla scogliera che proprio qui comincia quell’increspatura che sublimerà nel resto del Pacific Northwest. C’è chi ci ha visto anche altri tic ricorrenti: il fiorire della domotica, una musica generalmente superlativa – a partire dalla sigla dove suona quel capolavoro assoluto che è Cold Little Heart di Michael Kiwanuka – e la messa in Costituzione via Kravitz (nel senso di Zoe) dell’organic/yoga/sensitive/strong moral compass. A frazionare periodicamente la pace visiva e sonora spuntano flashforward polizieschi che ci annunciano lo snodo della storia: qualcuno morirà, e sarà per via violenta. A questo punto parte il toto-truffa del chi-è-chi (truffa perché se si legge il libro eccetera), ma non è una roba trascendentale. Cioè interessa, sì, ma fino a un certo punto. Lo spettatore non fremerà dal desiderio di conoscere il tragico accadimento, tutt’altro. Infatti, lo spettatore si sorprenderà di quanto poco gli interessi chi vada giù dalla scogliera preso com’è dalle movimentate – seppur in fondo immobili – vicende di quest’America ultraliberal di servizio, che nella sfera pubblica ha fatto il proprio dovere votando come si conviene alle ultime presidenziali ma che sa perfettamente che le regole del gioco sono cambiate, e che tutto il meglio va trattenuto a sé, nell’interiorità, tra la villa e il mare".

"Il trivial game + divertente dell'anno" (Lucca Comics)

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Lick it or Leave it!

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