venerdì 31 agosto 2018

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri
AVVENIRE
Se in "Elementary" Sherlock Holmes diventa postmoderno
"Elementare, Watson. Sherlock Holmes lo ripete sempre al suo assistente, almeno nei film e in tv. Peccato che non l'abbia mai detto nei romanzi dello scrittore inglese sir Arthur Conan Doyle, che ha dato vita al celebre investigatore privato pronto ogni volta a dare scacco a Scotland Yard nella soluzione dei misteri di Londra. Insomma, quella frase è apocrifa. Ma per l'immaginario collettivo Holmes non ne può fare a meno. Addirittura dà il titolo all'ultima serie dedicata alla creatura di Conan Doyle: Elementary, di cui il venerdì su Rai 2 sta andando in onda la sesta stagione. E pensare che in questo caso Holmes (interpretato da Jonny Lee Miller) fa a meno di tutto: dal famoso cappello da caccia (il deerstalker) alla tipica pipa ricurva a forma di proboscide. Ma soprattutto John H. Watson non è più il medico che Holmes liquidava con la famosa frase facendolo sentire inadeguata In questa versione statunitense prodotta dalla Cbs con la regia di Rob Doherty, Watson è un'affascinante donna di origini asiatiche interpretata da Lucy Liu. Ma se questa è la rilettura in chiave moderna più azzardata, non mancano altre novità. Innanzitutto l'ambientazione. Addio alla capitale britannica. Dopo essere uscito da una clinica per disintossicarsi dall'alcol e dalle droghe, Sherlock Holmes si stabilisce negli Stati Uniti, a NewYork, dove accetta di collaborare con la polizia affiancato, inizialmente suo malgrado, dalla sua tempista di riabilitazione, la Watson appunto, che diventa così sua assistente investigativa. E se Holmes non ha più la mantellina e nemmeno il papillon, ma una camicia senza cravatta con il collo sempre abbottonato, Watson in versione femminile conserva giacca e cravatta abbinandole, però, ai tacchi a spillo. Siamo, insomma, agli antipodi dallo Sherlock Holmes interpretato in tv da Nando Gazzolo e Gianni Bonagura con la regia di Guglielmo Morandi nel lontano 1968. Sono passati cinquant'anni. Il mezzo secolo si avverte tutto. L'Holmes attuale, all'inizio di questa sesta stagione, scopre addirittura di essere affetto da una particolare sindrome che lo costringe a bagni in acqua salata all'interno di un sarcofago di metallo. Ma anche così il popolare detective mantiene un suo fascino televisivo grazie ai tratti essenziali segnati per sempre dal suo autore sulla carta". (Andrea Fagioli)

mercoledì 29 agosto 2018

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri
CORRIERE DELLA SERA
Con "The Generi" Capatonda non graffia
"Quando la generalista va in vacanza, è un ottimo momento per dedicarsi alle infinite possibilità dell'on demand, anche oltre i confini di Netflix. Per esempio, Maccio Capatonda (al secolo Marcello Macchia) ha realizzato per l'area «Generation» della piattaforma online di Sky, Now TV, una serie in otto episodi intitolata The Generi, pensata per il pubblico giovane che da sempre segue Maccio. L'idea è questa: Maccio interpreta una nuova maschera, quella di Gianfelice Spagnagatti, un quarantenne «sfigato» che per insicurezza e frustrazione ha organizzato la sua vita in modo da non dover più uscire di casa e interagire con altre persone fisiche. Telelavoro, cibo a domicilio, home shopping e via così in un completo ripiegamento su se stesso. Improvvisamente, quasi fosse una nemesi per il suo stile di vita dopo l'ennesima rinuncia alla socialità, viene catapultato in un viaggio incredibile all'interno di una realtà parallela. In ogni episodio dovrà spingersi oltre la sua «comfort zone» e affrontare avventure che lo costringeranno a passare dalla passività al decisionismo. Tutto qui? No, la trama di ogni episodio è ambientata all'interno di uno specifico genere cinematografico, riprendendone caratteristiche e stilemi: il western, l'horror alla Scream, il noir alla Casablanca, ma anche le commedie delle docce all'italiana stile Lino Banfi e Alvaro Vitali. L'approccio «meta» si sa può essere molto scivoloso: detto onestamente, Maccio ha dimostrato in passato una grande capacità di raccontare vizi e manie dell'italiano medio, anche giocando su un registro fortemente demenziale. In questo caso invece ci sono alcuni episodi più riusciti di altri (quello horror), mala chiave di The Generi pare a tratti troppo di «testa»: nonostante il grande sforzo produttivo (la serie è realizzata da Lotus) il racconto fatica a ingranare e la comicità a graffiare". (Aldo Grasso)

martedì 28 agosto 2018

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri

IL FOGLIO
Se "Batwoman" lesbica riporta i social al neolitico
"Sarei morta pur di vedere un personaggio così in tv quando ero un giovane membro della comunità lgbt e non mi sentivo rappresentata in tv. Grazie a tutti. Grazie a Dio", ha scritto su Twitter Ruby Rose, la scorsa settimana, quando è stato ufficializzato il suo ingaggio nella parte di Batwoman per la prossima stagione di Arrow (in onda dal 2012 sull'emittente statunitense CW). In soldoni: finalmente una lesbica che interpreta una lesbica, ecce lesbica ed ecco pure la rappresentazione delle diversità fatta come si dovrebbe fare. E invece no, altroché, non ci siamo di nuovo: centinaia e centinaia di indignati hanno preso a scriverle, su Twitter, che non è adatta, che è vergognoso e ignominioso e insultante e razzista che sia stata scelta lei, perché non è abbastanza lesbica (come lo avranno stabilito, con il lesbicometro?), è un'attrice mediocre e, soprattutto, non è ebrea (nel fumetto di Bob Kane, invece, Batwoman è una ricca lesbica ebrea che frequenta l'alta società di Gotham City ed ha alle spalle una burrascosa relazione con la detective Montoya). Un paio di giorni di graticola mediatica e, alla fine, Ruby Rose ha cancellato il suo profilo Twitter dopo averlo usato per ricordare al gentile pubblico di aver fatto coming out a dodici anni, di essersi sempre battuta per i diritti lgbt, di aver subito discriminazioni e bullismo e omofobia e di conoscere perfettamente la frustrazione di chi fa parte di una minoranza relegata ai margini della rappresentazione, là dove tutto è macchietta e cliché. Meno di un mese fa, Scarlett Johansson ha rinunciato a un ruolo da transessuale che le era stato affidato (e che aveva accettato con entusiasmo) perché le erano precipitati addosso insulti e colorite indignazioni che contestavano, ritenendola discriminatoria, la scelta di affidare la parte di un trans a una eterosessuale cisgender anziché a un transessuale. Lei si è scusata per l'indelicatezza, ha ribadito di amare la comunità lgbt e ha stracciato il contratto. Ruby Rose, invece, per quanto intontita dal vedersi ritorcerlesi contro una battaglia che ha condotto in prima persona - i gay facciano i gay, gli asiatici facciano gli asiatici, i travestiti facciano i travestiti - ha solo fatto quello che stanno facendo sempre più personaggi pubblici: ha cestinato il suo account social. Ed è su questo che i giornali che hanno ripreso la notizia si stanno concentrando: l'insostenibilità di Twitter per i suoi utenti, specie se famosi. La catastrofe culturale che sta dentro il ritenere inappropriato un attore a un personaggio con il quale non condivida in modo completo e uniforme genotipo, fenotipo e bagaglio culturale, invece, viene discussa molto meno. Il paradosso tragicomico del risolvere l'inclusione delle minoranze, di fatto, con l'esclusione delle maggioranze è una specie di razzismo buono dal quale, forse, ci si comincia a illudere che otterremo lo sgombero dei pregiudizi dal nostro sguardo. Uno sguardo sempre più incapace di definire l'essere umano al di là delle sue informazioni anagrafiche e dei suoi gusti sessuali. Non è Medioevo (magari lo fosse): è Neolitico.

lunedì 27 agosto 2018

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri

IL FOGLIO
Basta serie tv col "binge watching", non si scopa più!
"Oltre a far entrare le gattare nel salotto buono, Instagram ha ridato dignità ai filtri seppiati. Pure a quelli che trasformano gli scatti in cartoline con il bordo seghettato, sfumate in rosa cipria e azzurro. Fa circolare a piede libero le prodezze dei pupi e le feste di carnevale con i cappellini scemi. Non possiamo più dire, figuriamoci pensare: "Grazie, riponga pure la foto della creatura vestita da pinguino nel portafogli". Poteva Netflix restare indietro? Certo che no. Netflix ha fatto l'upgrade alle serate di coppia davanti alla tv, fusi con i cuscini del divano — il sofà pub essere anche un letto, il televisore può essere un computer o qualsiasi altro black mirror, cambia poco. Era l'ultimo stadio della noia matrimoniale, della lunga convivenza, di "ogni passione spenta": lui sul divano che russa stringendo il telecomando; guai a sfilarglielo di mano, pena il risveglio. Se appena lo chiamiamo "binge watching" (magari con la promessa solenne di fedeltà "non andrò avanti a guardare questa serie senza di te") la serata coniugale cambia di segno. Diventa una prodezza di cui vantarsi. "Noi quattro, ieri sera". "Noi tre di fila, abbiamo saltato la cena". I francesi, che alle tradizioni ci tengono, hanno cominciato a interrogarsi sull'effetto che hanno serie sui bollenti spiriti degli spettatori. La tv era un rifugio per chi aveva superato l'età delle notti in discoteca. Netflix ha soprattutto abbonati giovani: l'elettrodomestico non l'hanno mai visto, non sanno cos'è un palinsesto televisivo, ma gli ormoni li dovrebbero avere ancora. "Fucking séries" — con l'accento perché sono francesi e il Big Mac lo chiamano "Le Big Mac", copyright Quentin Tarantino — è un articolo uscito su Les Inrockuptibles, numero speciale dedicato al sesso (ne fanno uno all'anno, con impegno e fantasia, scovando gruppi sadomaso rispettosi del #MeToo, con lo slogan "fammi male ma fammelo bene"). "Abbiamo smesso con le serie perché finiva che non scopavamo più", si lascia scappare una trentenne. Basta a una giornalista sveglia per partire con l'inchiesta. Prima gli studi scientifici, che non dimostrano granché. Sono vecchiotti, confermano che i bollenti spiriti sono intiepiditi, ma uno studio termina prima che arrivi lo streaming, e l'altro è una fake news partita da una battuta del ricercatore: "Questi sono i numeri, le cause non chiedetele a me, sarà colpa di Netflix". Un esperto francese di serialità non vede il rapporto causa/effetto: "Mi ricorda chi nell'800 accusava i romanzi di turbare le menti delle fanciulle". Con il senno di poi: le fanciulle non si sono fatte turbare granché. Possiamo indovinare un grande futuro per le serie televisive, che peraltro riprendono il feuilleton o romanzo a puntate, da cui non era esente neppure Dostoevskij. La psicosessuologa: "Succede, guardare una serie è meno impegnativo che far l'amore, se sei stanco". Interviene un paziente: "Non sono le serie, è che la mia fidanzata si addormenta a metà episodio, non mi sento di svegliarla". Sdrammatizza anche Iris Brey, nel libro "Sex and the series". Trovo romantico — scrive — che una coppia guardi una serie fino all'una di notte (come si siano messi d'accordo sulla serie per due sarà svelato agli avvocati che si occuperanno del divorzio). Sostiene che le serie spingono a un'attività scopereccia diversa. Che la frequenza — chiamatela anche quantità — non ha nulla a che fare con la qualità. Che la bizzarria e la non ortodossia (diciamo così) fanno solo bene. Firma l'articolo Camille Emmanuelle, che alla fine—siamo ormai sulla soglia per andarcene — sgancia la rivelazione: "Io e mio marito abbiamo chiamato nostra figlia come l'attrice che nella serie 'Transparent' fa Ali Pfefferman". Per i non adepti, una donna che vuole essere "queer", né maschio né femmina. Prendiamo nota anche di questo: prima dell'avvento di Netflix, chi dava ai figli i nomi presi dalla tv—vedi Pamela e Sue Ellen, le cleptomani borgatare di "Come un gatto in tangenziale" — non firmava articoli sui giornali alla moda". (Mariarosa Mancuso)

"Il trivial game + divertente dell'anno" (Lucca Comics)

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