Tanto per volare alti, dalle parti di Shakespeare, "cosa c'è in un nome?". O per stare più bassi, come canta Rihanna, "What's my name?". Oppure, telefilmicamente parlando, come nasce il titolo di una serie tv? Dietro ogni telefilm si nasconde, il più delle volte, una scelta impensabile per oculatezza, strategia e veggenza. Decisioni che passano dagli ideatori al marketing, dalle reti televisive ai pubblicitari. Non che un titolo azzeccato migliori il prodotto, semmai vale il contrario: un titolo sbagliato può nuocere alquanto. Nell'ambiente, si dice che un titolo perfetto non sia quello che spiega il mood o il significato della serie, quanto serva perlopiù ad attirare attenzione e pubblico. Uno degli esempi più riusciti degli ultimi anni è, in questo senso, "The Big Bang Theory": nel titolo traspare l'animo geek dei protagonisti, la loro natura di "scienziati" e anche un lieve eufemismo sessuale. Altro cult è considerato "Desperate Housewives": l'intrigo che si cela nei salotti. Giudicato a "rischio", agli inizi, "How I Met Your Mother", in quanto la figura materna esposta nel titolo non era così determinante e provocava un'ansia di vederla in scena. Altra grana che un titolo deve prevedere: l'unicità e la non sovrapposizione con omonimi. Di recente FX ha modificato il titolo della serie con Timothy Olyphant - originariamente chiamata "Lawman" - in "Justified", in quanto il network A&E trasmetteva un reality, inguardabile ma omonimo, intitolato "Steven Seagal: Lawman". Altro ingrediente da considerare: il target. CBS si è chiesta per settimane se "The Good Wife" potesse essere un titolo che richiamasse anche un pubblico giovane. O anche la previsione di cambio di rotta: più di un critico ha notato che "Cougar Town" appare vetusto oggigiorno, visto che il plot della matura che se la spassa coi ventenni è ormai decaduto col passare delle puntate. Qualcuno punta sull'ironia: in "Happy town" c'è ben poco da sorridere, del resto. Qualcun'altro vira sul mistero criptico ("Lost", "Life on Mars", "Viva Loughlin", "My Own Worst Enemy"), accellerando verso il bivio che ti lancia verso il cult (nei primi due casi) o ti getta verso il flop (gli ultimi due). Talvolta si esagera e si corre ai ripari: ad "House" si è aggiunta all'ultimo la specifica "M.D.", per non creare fraintendimenti "casalinghi". Talvolta le pippe di marketing non hanno ragione di esistere ed ecco in agguato l'operazione "riciclo": la sit-com medica "E/R" degli anni '80 e il medical drama "ER" degli anni '90 hanno avuto lo stesso titolo (e addirittura uno stesso interprete: George Clooney!); forse non tutti ricordano che "Lost" era stato anche il titolo di un reality-show di NBC nel 2001. "The Walking Dead" ha avuto il merito di far dimenticare ai più la parola "zombie" (con buona pace di George Romero), lanciando quasi una sorta di neologismo (cosa non riuscita col più generico "Dead Set", ad esempio). La CBS ha passato notti insonni per dare il titolo alla sit-com con William Shatner "Shit My Dad Says", espressione usata su Twitter dal commediografo (da strapazzo) Justin Halpern riferendosi all'espressione non proprio aulica del padre riguardo a qualsiasi argomento (sorta di tormentone alla "Denny Crane!", tanto per ricollegarci a Shatner). Se il libro di Halpern dal quale è tratta la sit-com è stato censurato al minimo nel titolo ("Sh*t My Dad Says"), il network ha pensato a un escamotage più criptico ("$#*! My Dad Says"). Chissà come lo tradurranno i network italiani, soprattutto quelli generalisti. Quella della traduzione a tutti i costi dei titoli anglofoni - soprattutto qualche anno fa, almeno fino allo scempio di "Ti presento i miei" per "Arrested Development" - meriterebbe un capitolo a parte. Anche per vedere come si disintegri il più delle volte la filiera d'Oltreoceano, considerandola alla stregua di un cine-panettone in cui Belen si potrebbe anche tradurre con Belìn.
(Articolo di Leo Damerini pubblicato su "Telefilm Magazine" di Febbraio)