GOSSIP - Clamoroso al Cibali! Kate Walsh sopravvissuta a un tumore al cervello nel 2015
News tratta da "Vulture"
Though Kate Walsh spent years playing a doctor on TV, her most urgent medical advice comes from her own experience. In an interview with Cosmopolitan, the former Private Practice star discussed how she was diagnosed with a brain tumor in 2015, which was found to be benign and was removed with surgery. “It was over 5cm, like a small lemon in my head, causing quite a bit of damage,” Walsh said of the diagnosis. “The whole situation was so overwhelming, and I was just so relieved to know there was something wrong, that it wasn’t just my imagination and that my instincts were correct.” After taking nine months off to recover from the surgery, Walsh dove into a series of new projects, including 13 Reasons Why, Girls Trip, Felt, and the Off Broadway play If I Forget. She decided to share the news of her experience now, she told Cosmo, to encourage others to have annual checkups with their doctors — she’s also taking part in a campaign with other TV doctors centered on just that idea. Listen to the TV doctor, go see a real doctor.
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giovedì 21 settembre 2017
venerdì 2 giugno 2017
NEWS - "Fargo": "improbabile un'altra stagione"
News tratta da "Slashfilm"
News tratta da "Slashfilm"
Noah Hawley doesn’t know if he’ll make another season of Fargo. He’s said so himself in the past. When he’s working on a season of the acclaimed FX series, he’s not thinking about the future. Hawley is telling one story at a time. If he has another story to tell, he’ll tell it, but he’s in no hurry. To FX’s credit, they’re not already pushing for more. Below, FX Chief John Landgraf comments on whether we’ll see Fargo season 4 happen or not. We’re midway through another excellent season of Fargo. With only three seasons so far, the show’s creator has taken his time by not cranking out a season every year. FX chief John Landgraf has no interest in doing that either, from the sound of it. Unless Hawley wants to go back to Minnesota, season three could be the end of Fargo, which is what John Landgraf told The Hollywood Reporter:
There may never be another Fargo. Unless [creator Noah Hawley] has an idea for Fargo that he thinks he can make as good as the prior three. I think once people get to the end of this [season] they will find that it is thematically different. It’s really about the moment we live in now.
Fargo fans probably would rather never see another season of Fargo instead of a rushed one. What’s comforting is Hawley is an idea man, someone who can make completely different shows like Fargo and Legion, write novels, and maybe even go from directing television to film. You’d imagine someone with his imagination would think of another Fargo story to tell, but we’ll have to wait and see if he does. As he said, he’s okay waiting four years to return to the show if the inspiration strikes, but there is, as Landgraf pointed out, the possibility of that not happening.
giovedì 9 febbraio 2017
L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri
IL FOGLIO
Basta un foulard per innamorarsi di "Legion"
"Giusto contrappasso, visti il sussiego e la serietà — oltre alla quantità — con cui arrivano sugli schermi. D'accordo, c'è stato un momento in cui i vendicatori mascherati raccontavano qualcosa del mondo, e un altro in cui i registi sfoderavano idee brillanti. Tempo scaduto: appena arriva qualcosa di originale, per esempio il mercenario parolaio "Deadpool" di Tim Miller, spunta una candidatura ai Golden Globe. L'ultimo Batman è un pupazzetto Lego (nel film "Lego Batman" di Chris McKay, esce giovedì prossimo). Vive in rancorosa solitudine mangiando aragosta e sfoggiando gli addominali (nove, l'uomo pipistrello ne ha uno più del dovuto). Superman organizza feste nel suo nascondiglio e non lo invita mai. Affidata alle cure di Noah Hawley — showrunner della serie "Fargo": finora due stagioni che rendono omaggio ai fratelli Coen con grande originalità — la metamorfosi del supereroe chiamato Legion è ancora più clamorosa. La serie è partita negli Usa (per gli spettatori italiani sarà su Fox dal 13 febbraio). Il protagonista è imparentato con gli X-Men: suo padre Charles Xavier, colui che nell'universo Marvel riunisce e protegge i mutanti, lo ha avuto in Israele da una sopravvissuta all'Olocausto. Tutti i supereroi sono ebrei, non solo le supereroine Masada e Sabra — lo sostiene Simcha Weinstein nel suo saggio "Up Up and Oy Vey: How Jewish History, Culture and Values Shaped The Comic Book Superhero". Legion è più ebreo degli altri. Vi diranno "Personalità multipla", e vi verrà la voglia di scappare (come è venuta a noi, anche perché eravamo reduci, con danni, dal "Split" di M. Night Shyamalan). Restate, almeno fino a quando compare il Clockworks Psichiatric Hospital. "A Clockworks Orange" — un'arancia a orologeria — era il titolo del romanzo scritto nel 1962 da Anthony Burgess (lo scrittore ha sempre odiato "Arancia meccanica", il film diretto Stanley Kubrick dieci anni dopo). Segno che Noah Hawley non ha visto solo serie tv, e neppure soltanto film dei fratelli Coen. Segno che l'orizzonte si allarga — perlomeno — ai condizionamenti e al libero arbitrio. Legion nasce con il nome di David Haller. Lo vediamo nelle prime scene moccioso in culla e poi bambinetto e poi adolescente, mentre cominciano a manifestarsi i superpoteri che ne faranno un reietto e un ricercato. L'ospedale psichiatrico fornisce ai ricoverati felpe arancione Guantanamo (solo un po' sbiadito, devono essere i troppi lavaggi). Ritroviamo la classica scena manicomiale, gente catatonica o agitatissima attorno al nuovo paziente, in un'edizione a metà tra l'hipster e il retrò. Ammiriamo il lavoro dello scenografo, del direttore della fotografia, del costumista che spengono i colori e li illividiscono (i supereroi di solito hanno tute fiammanti in colori saturi). Il giovane David ha già capito come funziona il Comma 22 psichiatrico: "Se dico sto bene' pensano che sono matto; se dico sono matto' aumentano il dosaggio delle medicine". I supereroi hanno di solito il volto mascherato. Qui godiamo ogni sfumatura sul volto di Dan Stevens (era Matthew in "Downton Abbey": lasciò la serie perché voleva provare ruoli diversi, lo fecero morire in un incidente d'auto), già candidato al titolo di schizofrenico più sexy mai visto su uno schermo. Soprattutto quando si innamora di Syd (di cognome le hanno messo Barrett, come il fondatore dei Pink Floyd che lasciò nel 1968 il gruppo perché fuori di testa). Lei non vuole essere toccata. Si tengono per mano afferrando le estremità dello stesso foulard. Basta per innamorarsi della serie". (Mariarosa Mancuso)
IL FOGLIO
Basta un foulard per innamorarsi di "Legion"
"Giusto contrappasso, visti il sussiego e la serietà — oltre alla quantità — con cui arrivano sugli schermi. D'accordo, c'è stato un momento in cui i vendicatori mascherati raccontavano qualcosa del mondo, e un altro in cui i registi sfoderavano idee brillanti. Tempo scaduto: appena arriva qualcosa di originale, per esempio il mercenario parolaio "Deadpool" di Tim Miller, spunta una candidatura ai Golden Globe. L'ultimo Batman è un pupazzetto Lego (nel film "Lego Batman" di Chris McKay, esce giovedì prossimo). Vive in rancorosa solitudine mangiando aragosta e sfoggiando gli addominali (nove, l'uomo pipistrello ne ha uno più del dovuto). Superman organizza feste nel suo nascondiglio e non lo invita mai. Affidata alle cure di Noah Hawley — showrunner della serie "Fargo": finora due stagioni che rendono omaggio ai fratelli Coen con grande originalità — la metamorfosi del supereroe chiamato Legion è ancora più clamorosa. La serie è partita negli Usa (per gli spettatori italiani sarà su Fox dal 13 febbraio). Il protagonista è imparentato con gli X-Men: suo padre Charles Xavier, colui che nell'universo Marvel riunisce e protegge i mutanti, lo ha avuto in Israele da una sopravvissuta all'Olocausto. Tutti i supereroi sono ebrei, non solo le supereroine Masada e Sabra — lo sostiene Simcha Weinstein nel suo saggio "Up Up and Oy Vey: How Jewish History, Culture and Values Shaped The Comic Book Superhero". Legion è più ebreo degli altri. Vi diranno "Personalità multipla", e vi verrà la voglia di scappare (come è venuta a noi, anche perché eravamo reduci, con danni, dal "Split" di M. Night Shyamalan). Restate, almeno fino a quando compare il Clockworks Psichiatric Hospital. "A Clockworks Orange" — un'arancia a orologeria — era il titolo del romanzo scritto nel 1962 da Anthony Burgess (lo scrittore ha sempre odiato "Arancia meccanica", il film diretto Stanley Kubrick dieci anni dopo). Segno che Noah Hawley non ha visto solo serie tv, e neppure soltanto film dei fratelli Coen. Segno che l'orizzonte si allarga — perlomeno — ai condizionamenti e al libero arbitrio. Legion nasce con il nome di David Haller. Lo vediamo nelle prime scene moccioso in culla e poi bambinetto e poi adolescente, mentre cominciano a manifestarsi i superpoteri che ne faranno un reietto e un ricercato. L'ospedale psichiatrico fornisce ai ricoverati felpe arancione Guantanamo (solo un po' sbiadito, devono essere i troppi lavaggi). Ritroviamo la classica scena manicomiale, gente catatonica o agitatissima attorno al nuovo paziente, in un'edizione a metà tra l'hipster e il retrò. Ammiriamo il lavoro dello scenografo, del direttore della fotografia, del costumista che spengono i colori e li illividiscono (i supereroi di solito hanno tute fiammanti in colori saturi). Il giovane David ha già capito come funziona il Comma 22 psichiatrico: "Se dico sto bene' pensano che sono matto; se dico sono matto' aumentano il dosaggio delle medicine". I supereroi hanno di solito il volto mascherato. Qui godiamo ogni sfumatura sul volto di Dan Stevens (era Matthew in "Downton Abbey": lasciò la serie perché voleva provare ruoli diversi, lo fecero morire in un incidente d'auto), già candidato al titolo di schizofrenico più sexy mai visto su uno schermo. Soprattutto quando si innamora di Syd (di cognome le hanno messo Barrett, come il fondatore dei Pink Floyd che lasciò nel 1968 il gruppo perché fuori di testa). Lei non vuole essere toccata. Si tengono per mano afferrando le estremità dello stesso foulard. Basta per innamorarsi della serie". (Mariarosa Mancuso)
martedì 28 giugno 2016
NEWS - Netflix, e voi che abbonati siete? Ingordi o sommelier? Analizzate le abitudini degli utenti streaming: i generi horror, action, thriller e scifi consumati prima di drama e sit-com
Articolo tratto da "Corriere Economia"
Si sa, lo streaming ha cambiato il modo in cui guardiamo le serie tv, svelando un pianeta di ghiottoni. II binge watching—la grande abbuffata— è stile di vita e malattia del nostro tempo. Liberi da spot pubblicitari e orari prefissati, ingurgitiamo un episodio dopo l'altro dei nostri programmi preferiti. Ma sarà proprio così? Secondo un nuovo studio di Netflix, che per sette mesi ha analizzato le abitudini degli utenti di oltre 190 Paesi su più di 100 serie, in corso o già concluse, se in generale gli spettatori finiscono una stagione entro una settimana, non tutte le serie sono consumate allo stesso modo. Alcune vengono divorate, altre «assaporate», cioè fruite un po' più lentamente. È la differenza tra chi fa streaming per più di due ore a volta e chi per meno: la cosiddetta «binge scale» di Netflix. «In passato ci limitavamo a sottolineare il fenomeno binge watching — spiega Cindy Holland, vice president contenuti originali dell'azienda guidata da Reed Hastings, che ad aprile contava nel mondo oltre 81 milioni di utenti —. Oggi lo svisceriamo». Scoprendo che gli spettatori consumano più velocemente serie d'azione, fantascienza, horror e thriller, mentre impiegano più tempo per drammi politici e commedie più sofisticate. Smodati, sì, insomma, ma non indistintamente. È questione di genere. C'è l'ingordo velocissimo, insaziabile. Che finisce una stagione in quattro giorni, guardandone due ore e mezza a volta. È l'utente di Breaking Bad, The Walking Dead, American Horror Story e Sons of Anarchy. Serie, cioè, che vanno dritte alla pancia, che non devi rifletterci troppo. C'é poi il famelico abbastanza smanioso, che di giorni ce ne mette cinque, per circa due ore al di. E quello che ama le commedie drammatiche, i polizieschi psicologici e serie di supereroi. Fargo, The Blacklist, Orange Is the New Black, ma anche Bloodline, Grace e Frankie e Jessica Jones. E cë infine il vorace riflessivo, che impiega sei giorni a completare una stagione e fa streaming per un'ora e 45 minuti a volta. Preferisce le serie politiche, le commedie più irriverenti, il dramma storico. E quindi Mad Men, Arrested Development, House of Cards, così come The Americans, Homeland e The Good Wife. Netflix tiene a sottolineare come «assaporare» una serie non vuol dire che questa abbia meno successo. Piuttosto, che l'utente abbia bisogno di più tempo per digerire ogni episodio. È il caso di commedie alternative con battute a ripetizione come Unbreakable Kimmy Schmidt, di serie di commento sociale, narrative complesse come House of Cards e Narcos. Emozioni profonde, personaggi sfaccettati. E certo, non tutti credono alla validità del modello binge. I network tradizionali tirano acqua a casa propria sostenendo che sia la messa in onda di settimana in settimana a tener più viva la conversazione culturale, e quindi l'interesse, su una serie. Netflix rilancia, osservando che un utente consuma le successive stagioni di una serie ancora più velocemente della prima. Se invece volete sapere quale sia quella meno divorata in assoluto, è presto detto. L'animata BoJack Horseman, black comedy con le voci di Will Arnett, Alison Brie e Amy Sedaris. Perché se il binge watching è il «new normal», entrare nella testa di un cavallo depresso e alcolizzato, pur se a cartoni, è ancora impresa cui accostarsi poco a poco.
Articolo tratto da "Corriere Economia"
Si sa, lo streaming ha cambiato il modo in cui guardiamo le serie tv, svelando un pianeta di ghiottoni. II binge watching—la grande abbuffata— è stile di vita e malattia del nostro tempo. Liberi da spot pubblicitari e orari prefissati, ingurgitiamo un episodio dopo l'altro dei nostri programmi preferiti. Ma sarà proprio così? Secondo un nuovo studio di Netflix, che per sette mesi ha analizzato le abitudini degli utenti di oltre 190 Paesi su più di 100 serie, in corso o già concluse, se in generale gli spettatori finiscono una stagione entro una settimana, non tutte le serie sono consumate allo stesso modo. Alcune vengono divorate, altre «assaporate», cioè fruite un po' più lentamente. È la differenza tra chi fa streaming per più di due ore a volta e chi per meno: la cosiddetta «binge scale» di Netflix. «In passato ci limitavamo a sottolineare il fenomeno binge watching — spiega Cindy Holland, vice president contenuti originali dell'azienda guidata da Reed Hastings, che ad aprile contava nel mondo oltre 81 milioni di utenti —. Oggi lo svisceriamo». Scoprendo che gli spettatori consumano più velocemente serie d'azione, fantascienza, horror e thriller, mentre impiegano più tempo per drammi politici e commedie più sofisticate. Smodati, sì, insomma, ma non indistintamente. È questione di genere. C'è l'ingordo velocissimo, insaziabile. Che finisce una stagione in quattro giorni, guardandone due ore e mezza a volta. È l'utente di Breaking Bad, The Walking Dead, American Horror Story e Sons of Anarchy. Serie, cioè, che vanno dritte alla pancia, che non devi rifletterci troppo. C'é poi il famelico abbastanza smanioso, che di giorni ce ne mette cinque, per circa due ore al di. E quello che ama le commedie drammatiche, i polizieschi psicologici e serie di supereroi. Fargo, The Blacklist, Orange Is the New Black, ma anche Bloodline, Grace e Frankie e Jessica Jones. E cë infine il vorace riflessivo, che impiega sei giorni a completare una stagione e fa streaming per un'ora e 45 minuti a volta. Preferisce le serie politiche, le commedie più irriverenti, il dramma storico. E quindi Mad Men, Arrested Development, House of Cards, così come The Americans, Homeland e The Good Wife. Netflix tiene a sottolineare come «assaporare» una serie non vuol dire che questa abbia meno successo. Piuttosto, che l'utente abbia bisogno di più tempo per digerire ogni episodio. È il caso di commedie alternative con battute a ripetizione come Unbreakable Kimmy Schmidt, di serie di commento sociale, narrative complesse come House of Cards e Narcos. Emozioni profonde, personaggi sfaccettati. E certo, non tutti credono alla validità del modello binge. I network tradizionali tirano acqua a casa propria sostenendo che sia la messa in onda di settimana in settimana a tener più viva la conversazione culturale, e quindi l'interesse, su una serie. Netflix rilancia, osservando che un utente consuma le successive stagioni di una serie ancora più velocemente della prima. Se invece volete sapere quale sia quella meno divorata in assoluto, è presto detto. L'animata BoJack Horseman, black comedy con le voci di Will Arnett, Alison Brie e Amy Sedaris. Perché se il binge watching è il «new normal», entrare nella testa di un cavallo depresso e alcolizzato, pur se a cartoni, è ancora impresa cui accostarsi poco a poco.
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lunedì 18 gennaio 2016
News: #CriticsChoiceAwards, #MrRobot leads TV Winners.
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— AccademiaTelefilm (@AcademyTelefilm) 18 Gennaio 2016
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martedì 5 gennaio 2016
LA VITA E' UNA COSA SERIAL - Sono strane e anche serial. Viaggio tra le "strambe" delle serie tv (a cominciare dalla "friend" capofila Phoebe)
Articolo di Arnaldo Greco per "Rivista Studio"
Quando ho visto Lisa Kudrow sul palco assieme a Taylor Swift per cantare Smelly cat (“Gatto Rognoso”) ho capito che la rivincita era completata. Non che la cosa non fosse chiara già da un pezzo, ma quell’immagine la rendeva palese. Ciò che resta maggiormente di Friends è Phoebe Buffay. Il resto vivacchia, resiste come eco, come ricordo, al massimo come citazione. Ma di Phoebe è zeppa la televisione di oggi. Si girano un bel po’ di sit-com classiche in cui si continua a usare l’amico strambo come contorno – il tizio con la sensibilità fuori dal mondo che non ha pudore a dire ai protagonisti che il re è nudo ogni puntata, perché fa ridere – ma non mi capita mai di vedere una delle serie tv che “fanno parlare”, quelle che prendono i premi, senza la certezza che a un certo punto uno dei protagonisti mi faccia pensare “pure qui un’altra Phoebe Buffay”.
Durante le oltre duecento puntate di Friends, il bilanciamento tra i vari personaggi non è mai cambiato. Poteva capitare che a uno dei sei protagonisti nascesse un figlio, morisse un parente o perdesse il lavoro, ma gli altri cinque non potevano fare da comprimari. Avevano la loro trama. Striminzita o secondaria nei termini del coinvolgimento emotivo degli spettatori, non come spazio. A Ross nasceva il primo figlio, Joey assisteva al parto di una ragazza madre appena conosciuta, Rachel flirtava con un dottore, Phoebe faceva da paciere tra Ross e la nuova compagna della moglie, etc. Era, però, altrettanto chiaro che il centro dell’azione fosse il salotto di Monica e Rachel (poi Chandler), al massimo l’abitazione di fronte o il locale sotto casa. Tutto orbitava lì attorno. Ci si allontanava un po’, a turno, ma si ritornava sempre lì. L’orbita più distante è sempre stata quella di Phoebe, persino negli episodi in cui abitava in quella casa. Là cercava il saltuario calore della famiglia mentre gli altri, chi più chi meno, cercavano un luogo fisso dove evitare la propria. A volte perfino in maniera un po’ forzata. Tant’è vero che chiunque almeno una volta ha pensato: “Perché è amica di queste persone?”.
Per farla breve ho sempre avuto l’impressione che Phoebe fosse la più sacrificabile tra i sei. Non che non fosse simpatica – era anzi la preferita di molti fan – e spesso risultava essere la cosa migliore di un episodio, ma il suo apporto allo sviluppo della storia, sulla lunga durata, era praticamente nullo (per esempio non troverà la conclusione della “sua” vicenda, unica tra tutti e sei, nell’ultimo episodio. Si sposerà a metà dell’ultima serie mentre tutti gli altri cambieranno la propria vita nelle ultime scene). Abbiamo sempre avuto l’impressione che avesse tanto da dire e niente di raccontabile. Ci piaceva la sua alienità, ma poi ci interessava di più che Ross e Rachel si mettessero assieme o che Monica e Chandler si comportassero da persone serie. O che tutti trovassero un lavoro vero. O che lo trovassero il più tardi possibile in modo da continuare a cazzeggiare.
Avevo torto. Perché oggi delle vite delle Monica e delle Rachel non ci interessa quasi niente. Da quanto tempo non vediamo una serie con un personaggio ordinario come Monica Geller protagonista non lo so neanche. Guardereste una serie su una ragazza maniaca della pulizia che vuole fare la cuoca? La cuoca ancora ancora, ma facciamo che intanto è incinta perché il fratello le ha chiesto di impiantare nel suo utero il figlio che vorrebbe avere con l’anziana professoressa di scuola con cui è fuggito (cosa davvero successa a Phoebe). Una serie su una figlia di buona famiglia che vuole provare a farcela da sola a New York e fa la cameriera in attesa che le si presenti un’occasione? Siamo seri. È troppo poco. Facciamo che uno spirito è migrato in lei così che possa alternare espressioni proprie a esclamazioni dello spirito (altra cosa successa in Friends). O che la mamma s’è suicidata ma – attenzione – lei crede che il suo spirito sia trasmigrato in un gatto (successo anche questo, ovviamente). Ecco che il pitch già suonerebbe più attuale.
Se non vestisse come un personaggio di un film del Sundance in uno sketch del Saturday Night Live non ne guarderemmo neanche il pilota. Ora, non è che voglia sopravvalutare Friends o Phoebe oltre quanto già meritino, dopotutto negli stessi anni dello show cresceva il Sundance che è il vero mandante morale del “quirky”, geniale definizione di qualcosa che sa essere “strano e carino” al tempo stesso (non a caso nell’Urban dictionary “Phoebe” risulta come primo esempio della definizione di “quirky”). Ma Phoebe è stata fondamentale per abituare al quirky quelli che poi avrebbero adorato Dharma & Greg, Miranda July, Little Miss Sunshine, eccetera.
Phoebe ha anche avuto l’obbligato difetto della stanchezza del personaggio: alla nona stagione potevano pure decidere che avrebbe raccolto chewing-gum dai marciapiedi per fare qualcosa per la pace nel mondo (no, questo non l’hanno fatto davvero), ma così ha anche sdoganato quella stanchezza che ci fa passivamente accettare qualsiasi stramberia all’insegna dell’ormai vale tutto. Che dal mio punto di vista è il grande difetto di, per esempio, Unbreakable Kimmy Schmidt, qui messo giù bene in un inaspettato autodafé.
O Transparent, in cui da contorno a Maura che vive il vero conflitto, per cui siamo curiosi di vedere gli episodi, dobbiamo sorbirci le bizzarre avventure senza capo né coda dei tre figli e fingere di credere davvero che una risposta come questa che segue alla domanda «Che cosa mangi?» sia spiazzante o rivelatoria di qualcosa e non solo quirky. (Nota bene: stiamo usando quirky senza alcun significato dispregiativo).
Potrei trovare analoghi esempi pure in Modern Family o in The Last Man on Earth o Parks and Recreation (quasi tutti show che guardo avidamente, intendiamoci, l’intrattenimento davvero scarso è altrove) ma soprattutto Girls che, per me, è l’apoteosi del Phoebismo. Tra le quattro protagoniste ci sono almeno tre Phoebe e nessuna Monica. A malapena una Rachel, cioè Marnie. Le altre: Shoshanna è evidentemente una Phoebe rimasta sotto qualche acido, Hannah è una Phoebe che deve ancora rinunciare all’idea che per stare bene devi combinare qualcosa nella vita e perfino Jessa è chiaramente una Phoebe a cui è stato brutalmente sradicato ogni senso dell’umorismo. Anche perché, dopotutto, noi sappiamo perfettamente come sarebbe una Phoebe senza senso dell’umorismo. Ogni tanto, in Friends, faceva capolino Ursula, la sorella gemella “cattiva” di Friends. Che non era solo una parodia delle gemelle cattive delle telenovelas, ma anche una parodia di Phoebe stessa. Ed ecco qui una scena: ditemi se non è uguale a Jessa, perfino nell’espressione.
Ovviamente per non cadere negli stereotipi c’è anche un quirky maschile. Per rimanere sempre in tema Girls.
O, ancora meglio, Master of None.
Non ho citato tutti questi show per accusarli di limitarsi al “quirky” (tranne forse UKS, quello è solo quirky e basta), ma perché a mio parere personaggi che richiedono una sospensione dell’incredulità perfino superiore a quella richiesta dai Fantastici 4 diventano meno efficaci – è il loro limite – quando l’ambizione sarebbe, oltre a intrattenere, anche quella di raccontare cose “significative”. Da un po’ di anni a queste parte usiamo “superficiale” anche come complimento. Ne capisco il senso. Ma è altrettanto vero che certi show possono essere superficiali e basta, senza alcuna nuova accezione.
Al momento c’è, però, in onda un personaggio che a suo modo rappresenta già una presa in giro del quirky ed è Peggy Blumquist, interpretata da Kirsten Dunst nella seconda stagione di Fargo.
Perché mentre la naiveté dei personaggi citati finora è l’espediente per farla franca sempre e comunque, in qualsiasi situazione, episodio dopo episodio, per Peggy è una condanna (no spoiler, non ho ancora idea di come prosegua la serie mentre scrivo, basta un episodio per comprendere quanto sia una condanna a prescindere dallo sviluppo). La sua stramberia la mette in pericolo, la costringe a mentire, la fa impazzire. È perfettamente in linea con la serie: le storie di Fargo sono piene di stupidi. Ma se il marito è più simile agli stupidi della prima stagione, stupidi evangelici, del tipo “beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli”, la stupidità di Peggy, invece, è negativa. È un quirky antipatico. Che sia, però, l’anticipo di una nuova tendenza è forse più una speranza che una possibilità.
Articolo di Arnaldo Greco per "Rivista Studio"
Quando ho visto Lisa Kudrow sul palco assieme a Taylor Swift per cantare Smelly cat (“Gatto Rognoso”) ho capito che la rivincita era completata. Non che la cosa non fosse chiara già da un pezzo, ma quell’immagine la rendeva palese. Ciò che resta maggiormente di Friends è Phoebe Buffay. Il resto vivacchia, resiste come eco, come ricordo, al massimo come citazione. Ma di Phoebe è zeppa la televisione di oggi. Si girano un bel po’ di sit-com classiche in cui si continua a usare l’amico strambo come contorno – il tizio con la sensibilità fuori dal mondo che non ha pudore a dire ai protagonisti che il re è nudo ogni puntata, perché fa ridere – ma non mi capita mai di vedere una delle serie tv che “fanno parlare”, quelle che prendono i premi, senza la certezza che a un certo punto uno dei protagonisti mi faccia pensare “pure qui un’altra Phoebe Buffay”.
Durante le oltre duecento puntate di Friends, il bilanciamento tra i vari personaggi non è mai cambiato. Poteva capitare che a uno dei sei protagonisti nascesse un figlio, morisse un parente o perdesse il lavoro, ma gli altri cinque non potevano fare da comprimari. Avevano la loro trama. Striminzita o secondaria nei termini del coinvolgimento emotivo degli spettatori, non come spazio. A Ross nasceva il primo figlio, Joey assisteva al parto di una ragazza madre appena conosciuta, Rachel flirtava con un dottore, Phoebe faceva da paciere tra Ross e la nuova compagna della moglie, etc. Era, però, altrettanto chiaro che il centro dell’azione fosse il salotto di Monica e Rachel (poi Chandler), al massimo l’abitazione di fronte o il locale sotto casa. Tutto orbitava lì attorno. Ci si allontanava un po’, a turno, ma si ritornava sempre lì. L’orbita più distante è sempre stata quella di Phoebe, persino negli episodi in cui abitava in quella casa. Là cercava il saltuario calore della famiglia mentre gli altri, chi più chi meno, cercavano un luogo fisso dove evitare la propria. A volte perfino in maniera un po’ forzata. Tant’è vero che chiunque almeno una volta ha pensato: “Perché è amica di queste persone?”.
Per farla breve ho sempre avuto l’impressione che Phoebe fosse la più sacrificabile tra i sei. Non che non fosse simpatica – era anzi la preferita di molti fan – e spesso risultava essere la cosa migliore di un episodio, ma il suo apporto allo sviluppo della storia, sulla lunga durata, era praticamente nullo (per esempio non troverà la conclusione della “sua” vicenda, unica tra tutti e sei, nell’ultimo episodio. Si sposerà a metà dell’ultima serie mentre tutti gli altri cambieranno la propria vita nelle ultime scene). Abbiamo sempre avuto l’impressione che avesse tanto da dire e niente di raccontabile. Ci piaceva la sua alienità, ma poi ci interessava di più che Ross e Rachel si mettessero assieme o che Monica e Chandler si comportassero da persone serie. O che tutti trovassero un lavoro vero. O che lo trovassero il più tardi possibile in modo da continuare a cazzeggiare.
Avevo torto. Perché oggi delle vite delle Monica e delle Rachel non ci interessa quasi niente. Da quanto tempo non vediamo una serie con un personaggio ordinario come Monica Geller protagonista non lo so neanche. Guardereste una serie su una ragazza maniaca della pulizia che vuole fare la cuoca? La cuoca ancora ancora, ma facciamo che intanto è incinta perché il fratello le ha chiesto di impiantare nel suo utero il figlio che vorrebbe avere con l’anziana professoressa di scuola con cui è fuggito (cosa davvero successa a Phoebe). Una serie su una figlia di buona famiglia che vuole provare a farcela da sola a New York e fa la cameriera in attesa che le si presenti un’occasione? Siamo seri. È troppo poco. Facciamo che uno spirito è migrato in lei così che possa alternare espressioni proprie a esclamazioni dello spirito (altra cosa successa in Friends). O che la mamma s’è suicidata ma – attenzione – lei crede che il suo spirito sia trasmigrato in un gatto (successo anche questo, ovviamente). Ecco che il pitch già suonerebbe più attuale.
Se non vestisse come un personaggio di un film del Sundance in uno sketch del Saturday Night Live non ne guarderemmo neanche il pilota. Ora, non è che voglia sopravvalutare Friends o Phoebe oltre quanto già meritino, dopotutto negli stessi anni dello show cresceva il Sundance che è il vero mandante morale del “quirky”, geniale definizione di qualcosa che sa essere “strano e carino” al tempo stesso (non a caso nell’Urban dictionary “Phoebe” risulta come primo esempio della definizione di “quirky”). Ma Phoebe è stata fondamentale per abituare al quirky quelli che poi avrebbero adorato Dharma & Greg, Miranda July, Little Miss Sunshine, eccetera.
Phoebe ha anche avuto l’obbligato difetto della stanchezza del personaggio: alla nona stagione potevano pure decidere che avrebbe raccolto chewing-gum dai marciapiedi per fare qualcosa per la pace nel mondo (no, questo non l’hanno fatto davvero), ma così ha anche sdoganato quella stanchezza che ci fa passivamente accettare qualsiasi stramberia all’insegna dell’ormai vale tutto. Che dal mio punto di vista è il grande difetto di, per esempio, Unbreakable Kimmy Schmidt, qui messo giù bene in un inaspettato autodafé.
O Transparent, in cui da contorno a Maura che vive il vero conflitto, per cui siamo curiosi di vedere gli episodi, dobbiamo sorbirci le bizzarre avventure senza capo né coda dei tre figli e fingere di credere davvero che una risposta come questa che segue alla domanda «Che cosa mangi?» sia spiazzante o rivelatoria di qualcosa e non solo quirky. (Nota bene: stiamo usando quirky senza alcun significato dispregiativo).
Potrei trovare analoghi esempi pure in Modern Family o in The Last Man on Earth o Parks and Recreation (quasi tutti show che guardo avidamente, intendiamoci, l’intrattenimento davvero scarso è altrove) ma soprattutto Girls che, per me, è l’apoteosi del Phoebismo. Tra le quattro protagoniste ci sono almeno tre Phoebe e nessuna Monica. A malapena una Rachel, cioè Marnie. Le altre: Shoshanna è evidentemente una Phoebe rimasta sotto qualche acido, Hannah è una Phoebe che deve ancora rinunciare all’idea che per stare bene devi combinare qualcosa nella vita e perfino Jessa è chiaramente una Phoebe a cui è stato brutalmente sradicato ogni senso dell’umorismo. Anche perché, dopotutto, noi sappiamo perfettamente come sarebbe una Phoebe senza senso dell’umorismo. Ogni tanto, in Friends, faceva capolino Ursula, la sorella gemella “cattiva” di Friends. Che non era solo una parodia delle gemelle cattive delle telenovelas, ma anche una parodia di Phoebe stessa. Ed ecco qui una scena: ditemi se non è uguale a Jessa, perfino nell’espressione.
Ovviamente per non cadere negli stereotipi c’è anche un quirky maschile. Per rimanere sempre in tema Girls.
O, ancora meglio, Master of None.
Non ho citato tutti questi show per accusarli di limitarsi al “quirky” (tranne forse UKS, quello è solo quirky e basta), ma perché a mio parere personaggi che richiedono una sospensione dell’incredulità perfino superiore a quella richiesta dai Fantastici 4 diventano meno efficaci – è il loro limite – quando l’ambizione sarebbe, oltre a intrattenere, anche quella di raccontare cose “significative”. Da un po’ di anni a queste parte usiamo “superficiale” anche come complimento. Ne capisco il senso. Ma è altrettanto vero che certi show possono essere superficiali e basta, senza alcuna nuova accezione.
Al momento c’è, però, in onda un personaggio che a suo modo rappresenta già una presa in giro del quirky ed è Peggy Blumquist, interpretata da Kirsten Dunst nella seconda stagione di Fargo.
Perché mentre la naiveté dei personaggi citati finora è l’espediente per farla franca sempre e comunque, in qualsiasi situazione, episodio dopo episodio, per Peggy è una condanna (no spoiler, non ho ancora idea di come prosegua la serie mentre scrivo, basta un episodio per comprendere quanto sia una condanna a prescindere dallo sviluppo). La sua stramberia la mette in pericolo, la costringe a mentire, la fa impazzire. È perfettamente in linea con la serie: le storie di Fargo sono piene di stupidi. Ma se il marito è più simile agli stupidi della prima stagione, stupidi evangelici, del tipo “beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli”, la stupidità di Peggy, invece, è negativa. È un quirky antipatico. Che sia, però, l’anticipo di una nuova tendenza è forse più una speranza che una possibilità.
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venerdì 24 luglio 2015
NEWS - Tutti a Como sabato sera! C'é la maratona "Twin Peaks", brividi cult per sfuggire dal caldo. "Fu la prima serie a unire marketing e sostanza"
Articolo tratto da "La Repubblica"
Alberi mossi dal vento, una provincia torbida e dalla natura selvaggia, omicidi misteriosi, personaggi con segreti indicibili resi ancor più mostruosi da inquadrature sghembe e luci seppia, lunghi silenzi, forse la cosa più angosciante. Quando uscì I segreti di Twin Peaks, serie tv di David Lynch, fu una bomba: il cinema irrompeva nellatv e modificava per sempre il linguaggio della fiction, con effetti che si possono vedere ancora adesso. Parliamo di un quarto di secolo fa (primo episodio 8 gennaio 1991), ma le vicende di Twin Peaks, cittadina al confine col Canada simile a mille altre non solo degli Usa, sono ancora ben conosciute. Non solo da chi le vide allora su Canale 5, ma anche da chi si è poi affidato a cofanetti dvd e file scaricati da Internet. Un'alternativa c'è però domani sera: al Lake Como Film Festival gli 8 episodi cruciali della serie (cornposta di 30 puntate) sono proiettati di fila, in una maratona notturna che parte alle 21.30. «Ottima idea, resta una visione geniale e che ci racconta molto della tv attuale. Però qualcosa chi non c'era allora non potrà capirlo», dice Leo Damerini, autore con Fabrizio Margaria del Dizionario dei telefilm, edito da Garzanti, e direttore del Telefilm Festival ( «che presto ripartirà, ma lontano da Milano e dalla Lombardia»). Cosa sfuggirà allo spettatore di questa maratona? Semplice, il clima di allora. «I segreti di Twin Peaks fu il primo grande esempio di marketing applicato alla tv. Il battage pubblicitario diventò un tormentone, con le famosa domanda-slogan "chi ha ucciso Laura Palmer?". E - in epoca ben lontana da chat, internet e social network - si creò un evento: una serie tv diventava qualcosa di intrigante e curioso, il prodotto in sé contava ancor più del fatto che il regista fosse famoso, anche perché ai tempi Lynch lo era relativamente. Per cui ogni dettaglio fu studiato con attenzione, penso alle videocassette che arrivavano dagli Stati Uniti solo pochi giorni prima della messa in onda, o il diario di Laura Palmer allegato a puntate da Tv Sorrisi e canzoni». Naturalmente non fu solo questione di marketing. Il telefilm aveva grandissima sostanza, «solo che non era la sostanza che ci si aspettava. Era un mistery, ma in fondo chi avesse davvero ucciso la giovane Laura diventava man mano meno importante nella narrazione. Anzi, era forse il punto debole della trama. E col tempo venivano fuori dettagli, bozzetti umani, sottotrame, storie di società segrete, sesso clandestino, droga, e molto altro. La scommessa vinta di Lynch fu prendere il pubblico dei Peccatori di Peyton Place, delle serie tv poliziesche e del cinema. E ci riuscì. Al punto che il secondo ciclo è un puro antipasto del suo cinema, penso a un titolo come Mullholland drive di anni dopo: nel cinema non bisogna entrare nella trama, ma nel senso della visione, che è tutta un'altra cosa». E quanto a senso della visione, il telefilm offriva di tutto: «Citazioni continue, inquadrature deformanti, colori che colpivano l'occhio. Più una colonna sonora che, a parte l'indimenticabile tema di Angelo Badalamenti, miscelava un tema diverso per ogni personaggio e silenzi che diventavano un filo narrativo. Tutte cose in teoria antitelevisive e che invece erano uno spettacolo perfetto». Una filosofia che è percolata anche in tante altre serie tv, «e in questo senso I segreti di Twin peaks ha fatto scuola: si parla di qualcosa di specifico, ma in realtà si racconta tutt'altro fra sotto-trame, citazioni e pretesti. Penso ai Soprano, E.R. e West Wing, che solo in apparenza trattano di mafia, sanità e politica. Anche se, dovendo indicare gli eredi più diretti di questa fiction, direi Fargo, True detective e The Killing, tutte serie di pay e non a caso, perché sono quelle che si possono concedere sperimentazioni. Mentre allora Lynch produsse per la Abc, una tv gratuita e generalista, e anche in questo fu dirompente». Ma proprio per tutto quello che è restato da allora, un ragazzino di adesso riuscirebbe ancora a essere sorpreso dai Segreti di Twin peaks? «Io penso di sì. Proprio perché se ne è parlato molto negli anni, i giovani ci si accostano come una cosa di culto. E che parla ancora il linguaggio di oggi».
DOVE E QUANDO: Como, Arena teatro sociale, sabato 25 luglio, ore 21.30 . Ingresso 8 euro (spaghettata notturna a 5 euro). Tel. 031.303492
Articolo tratto da "La Repubblica"
Alberi mossi dal vento, una provincia torbida e dalla natura selvaggia, omicidi misteriosi, personaggi con segreti indicibili resi ancor più mostruosi da inquadrature sghembe e luci seppia, lunghi silenzi, forse la cosa più angosciante. Quando uscì I segreti di Twin Peaks, serie tv di David Lynch, fu una bomba: il cinema irrompeva nellatv e modificava per sempre il linguaggio della fiction, con effetti che si possono vedere ancora adesso. Parliamo di un quarto di secolo fa (primo episodio 8 gennaio 1991), ma le vicende di Twin Peaks, cittadina al confine col Canada simile a mille altre non solo degli Usa, sono ancora ben conosciute. Non solo da chi le vide allora su Canale 5, ma anche da chi si è poi affidato a cofanetti dvd e file scaricati da Internet. Un'alternativa c'è però domani sera: al Lake Como Film Festival gli 8 episodi cruciali della serie (cornposta di 30 puntate) sono proiettati di fila, in una maratona notturna che parte alle 21.30. «Ottima idea, resta una visione geniale e che ci racconta molto della tv attuale. Però qualcosa chi non c'era allora non potrà capirlo», dice Leo Damerini, autore con Fabrizio Margaria del Dizionario dei telefilm, edito da Garzanti, e direttore del Telefilm Festival ( «che presto ripartirà, ma lontano da Milano e dalla Lombardia»). Cosa sfuggirà allo spettatore di questa maratona? Semplice, il clima di allora. «I segreti di Twin Peaks fu il primo grande esempio di marketing applicato alla tv. Il battage pubblicitario diventò un tormentone, con le famosa domanda-slogan "chi ha ucciso Laura Palmer?". E - in epoca ben lontana da chat, internet e social network - si creò un evento: una serie tv diventava qualcosa di intrigante e curioso, il prodotto in sé contava ancor più del fatto che il regista fosse famoso, anche perché ai tempi Lynch lo era relativamente. Per cui ogni dettaglio fu studiato con attenzione, penso alle videocassette che arrivavano dagli Stati Uniti solo pochi giorni prima della messa in onda, o il diario di Laura Palmer allegato a puntate da Tv Sorrisi e canzoni». Naturalmente non fu solo questione di marketing. Il telefilm aveva grandissima sostanza, «solo che non era la sostanza che ci si aspettava. Era un mistery, ma in fondo chi avesse davvero ucciso la giovane Laura diventava man mano meno importante nella narrazione. Anzi, era forse il punto debole della trama. E col tempo venivano fuori dettagli, bozzetti umani, sottotrame, storie di società segrete, sesso clandestino, droga, e molto altro. La scommessa vinta di Lynch fu prendere il pubblico dei Peccatori di Peyton Place, delle serie tv poliziesche e del cinema. E ci riuscì. Al punto che il secondo ciclo è un puro antipasto del suo cinema, penso a un titolo come Mullholland drive di anni dopo: nel cinema non bisogna entrare nella trama, ma nel senso della visione, che è tutta un'altra cosa». E quanto a senso della visione, il telefilm offriva di tutto: «Citazioni continue, inquadrature deformanti, colori che colpivano l'occhio. Più una colonna sonora che, a parte l'indimenticabile tema di Angelo Badalamenti, miscelava un tema diverso per ogni personaggio e silenzi che diventavano un filo narrativo. Tutte cose in teoria antitelevisive e che invece erano uno spettacolo perfetto». Una filosofia che è percolata anche in tante altre serie tv, «e in questo senso I segreti di Twin peaks ha fatto scuola: si parla di qualcosa di specifico, ma in realtà si racconta tutt'altro fra sotto-trame, citazioni e pretesti. Penso ai Soprano, E.R. e West Wing, che solo in apparenza trattano di mafia, sanità e politica. Anche se, dovendo indicare gli eredi più diretti di questa fiction, direi Fargo, True detective e The Killing, tutte serie di pay e non a caso, perché sono quelle che si possono concedere sperimentazioni. Mentre allora Lynch produsse per la Abc, una tv gratuita e generalista, e anche in questo fu dirompente». Ma proprio per tutto quello che è restato da allora, un ragazzino di adesso riuscirebbe ancora a essere sorpreso dai Segreti di Twin peaks? «Io penso di sì. Proprio perché se ne è parlato molto negli anni, i giovani ci si accostano come una cosa di culto. E che parla ancora il linguaggio di oggi».
DOVE E QUANDO: Como, Arena teatro sociale, sabato 25 luglio, ore 21.30 . Ingresso 8 euro (spaghettata notturna a 5 euro). Tel. 031.303492
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lunedì 12 gennaio 2015
NEWS - Golden Globes, "Fargo" è un..."Affair" alquanto "Transparent"! Delusione totale "True Detective"
Miglior drama: The Affair, Showtime.
Miglior comedy: Transparent, Amazon.
Miglior attore di una serie tv drama: Kevin Spacey, per il ruolo di Francis J. Underwood in House of Cards (Netflix)
Miglior attrice di una serie tv drama: Ruth Wilson, per il ruolo di Alison Lockhart in The Affair (Showtime).
Miglior attore di una serie tv comedy: Jeffrey Tambor, Transparent (Amazon).
Miglior attrice di una serie tv comedy: Gina Rodriguez, Jane The Virgin (The CW).
Miglior miniserie o film-tv: Fargo, Fx.
Miglior attore in una miniserie o film-tv: Billy Bob Thornton, Fargo (FX).
Miglior attrice in una miniserie o film-tv: Maggie Gyllenhaal, per il ruolo di Nessa Stein in The Honorable Woman (Bbc Two).
Miglior attore non protagonista in una serie tv, miniserie o film-tv: Matt Bomer, The Normal Heart (HBO).
Miglior attrice non protagonista in una serie tv, miniserie o film-tv: Joanne Froggatt, per il ruolo di Anna Bates in Downton Abbey (Itv)
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martedì 23 dicembre 2014
L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri
CORRIERE DELLA SERA
"Fargo" e il rodimento delle certezze
"«This is a true story». Difficile da spiegare cosa sia il vero, specie se di mezzo c'è la morte. «Fargo» è una serie in 10 episodi ispirata all'omonimo film vincitore agli Oscar del 1996 e firmato dai fratelli Coen, qui in veste di produttori esecutivi (Sky Atlantic, martedì, 21.10). Siamo a Bemidji, nel Minnesota, anno 2006. A un tiro di schioppo c'è Duluth, la cittadina dove è nato Bob Dylan. Sin dalle prime immagini siamo presi in un flusso narrativo dove la magistrale ambientazione, quasi un inferno sublunare, si intreccia con una dimensione mitico-naturalista tra l'euforia e la rassegnazione, tra delusioni reiterate e indaffarate speranze, tra il bianco della neve e il rosso del sangue. Lorne Malvo (Billy Bob Thornton) è un killer professionista, in trasferta per lavoro, che trascina in una catena di efferati delitti l'impacciato e timido Lester Nygaard (Martin Freeman), assicuratore sfortunato che vede la sua vita stravolta in poche ore. Sulle loro tracce, la giovane agente di polizia Molly Solverson (Allison Tolman). Lester e Lorne s'incontrano per caso: la vita del perdente, del loser, s'intreccia con quella dello spietato, del killer, generando uno scambio fatale. Al personaggio più insignificante di Bemidji, umiliato da parenti e amici, viene offerta la più perversa delle vie di riscatto: fare il lavoro sporco per conto di altri. In cambio, lui ricaverà il modo di farsi giustizia nei confronti di chi per anni e anni lo ha mortificato.«This is a true story». Perché certe storie capitino davvero bisogna saperle raccontare, offrire loro una trama convincente. Toccherà poi alla poliziotta Solverson sciogliere un intreccio (anche narrativo) che andrà sempre di più ingarbugliandosi. L'inconfondibile marchio dei fratelli Coen è presente fin dalla sceneggiatura: la serie non è un'imitazione del film ma una sua reinterpretazione, ambientata 19 anni dopo, nel rodimento delle certezze". (Aldo Grasso, 18.12.2014)
CORRIERE DELLA SERA
"Fargo" e il rodimento delle certezze
"«This is a true story». Difficile da spiegare cosa sia il vero, specie se di mezzo c'è la morte. «Fargo» è una serie in 10 episodi ispirata all'omonimo film vincitore agli Oscar del 1996 e firmato dai fratelli Coen, qui in veste di produttori esecutivi (Sky Atlantic, martedì, 21.10). Siamo a Bemidji, nel Minnesota, anno 2006. A un tiro di schioppo c'è Duluth, la cittadina dove è nato Bob Dylan. Sin dalle prime immagini siamo presi in un flusso narrativo dove la magistrale ambientazione, quasi un inferno sublunare, si intreccia con una dimensione mitico-naturalista tra l'euforia e la rassegnazione, tra delusioni reiterate e indaffarate speranze, tra il bianco della neve e il rosso del sangue. Lorne Malvo (Billy Bob Thornton) è un killer professionista, in trasferta per lavoro, che trascina in una catena di efferati delitti l'impacciato e timido Lester Nygaard (Martin Freeman), assicuratore sfortunato che vede la sua vita stravolta in poche ore. Sulle loro tracce, la giovane agente di polizia Molly Solverson (Allison Tolman). Lester e Lorne s'incontrano per caso: la vita del perdente, del loser, s'intreccia con quella dello spietato, del killer, generando uno scambio fatale. Al personaggio più insignificante di Bemidji, umiliato da parenti e amici, viene offerta la più perversa delle vie di riscatto: fare il lavoro sporco per conto di altri. In cambio, lui ricaverà il modo di farsi giustizia nei confronti di chi per anni e anni lo ha mortificato.«This is a true story». Perché certe storie capitino davvero bisogna saperle raccontare, offrire loro una trama convincente. Toccherà poi alla poliziotta Solverson sciogliere un intreccio (anche narrativo) che andrà sempre di più ingarbugliandosi. L'inconfondibile marchio dei fratelli Coen è presente fin dalla sceneggiatura: la serie non è un'imitazione del film ma una sua reinterpretazione, ambientata 19 anni dopo, nel rodimento delle certezze". (Aldo Grasso, 18.12.2014)
giovedì 11 settembre 2014
NEWS - Sky si ripettina (non ditelo a quello in mezzo nella foto sopra)! Dal 1 novembre due nuovi canali Fox (era indispensabile?)
(ANSA) - MILANO, 10 SET - Sono in arrivo due nuovi canali targati Fox International Channels su Sky. Dal primo novembre si accenderanno, infatti, Fox Animation e Fox Comedy, per offrire agli abbonati Sky "il meglio dei due generi". Su Fox Comedy, la 'casa del divertimento', verranno trasmesse serie comedy e sitcom prodotte negli Stati Uniti: da classici, come New Girl e Modern Family, a novita', tra cui Friends with better lives, Welcome to the family e progetti innovativi come Wilfred, Louie, The league o It's always sunny in Philadelphia. Su Fox animation, la 'casa delle serie animate', troveranno spazio classici del genere, come The Simpson, I Griffin e American Dad ed esclusive come Bob's burger, Brickelberry e King of the hill, in attesa del nuovo Bordertown di Seth MacFarlane. "Il lancio di questi due nuovi brand indica l'energia e la creativita' del gruppo, e la voglia di investire in nuovi progetti", ha spiegato l'amministratore delegato di Fox International Channel, Fabrizio Salini, durante la presentazione dei nuovi programmi Sky a Milano. "Abbiamo scelto di lanciare nuovi canali di genere come Comedy e Animation - ha spiegato Alberto Rossini, vicepresidente Entertainment and Factual di Fox Italia -, perche' la semplificazione della proposta e' un magnete attrattivo nei confronti degli spettatori". Approda poi sui canali Fox Italia una delle serie televisive "piu' attese della prossima stagione", Wayward Pines, con la regia di M. Night Shyamalan e un cast composto dagli attori Matt Dillon, Melissa Leo, Terrence Howard, Juliette Lewis e Toby Jones. E' una delle novita' della programmazione di Sky per la stagione 2015, presentata oggi a Milano. Tra gli ospiti anche Matt Dillon che nella nuova serie tv veste i panni di un agente segreto in missione in una cittadina americana, Wayward Pines, in cerca di due agenti federali scomparsi nel nulla. Una volta arrivato, scoprira' di non essere piu' in grado di andarsene e di comunicare con l'esterno, rimanendo intrappolato in uno scenario surreale e inquietante e in situazioni umoristiche. "Il progetto mi e' piaciuto subito - ha spiegato Dillon - ed ero incuriosito dalla possibilita' di recitare in una serie televisiva. La tv e' un mezzo estremamente potente ed efficace -ha proseguito - che rispetto al cinema permette di entrare piu' all'interno di una storia, raccontandola in diverse puntate''. ''Ho lavorato con un cast fantastico - ha proseguito - e il regista ha avuto la capacita' di tirare fuori il meglio dagli attori". Dillon ha pero' rifiutato il paragone tra Wayward Pines e la celebre serie Twin Peaks, perche' Twin Peaks e' "unica e inimitabile". La nuova serie si aggiungera' all'offerta Fox su Sky, con l'obiettivo di proporre ogni sera "una prima visione in prime time".
Tra le fiction, Sky punta su Papa Giovane, la prima serie tv diretta dal regista premio Oscar Paolo Sorrentino, che racconta sogni, paure e desideri di un pontefice, i Delitti del BarLume, tratta dai romanzi di Marco Malvaldi, e Diabolik-La serie, ispirata al popolare fumetto. Andra' in onda nel 2015 la serie in 10 episodi 1992, da un'idea di Stefano Accorsi, che racconta la stagione di Tangentopoli. L'obiettivo e' quello di raggiungere i picchi d'ascolto di Gomorra, venduta in oltre 70 Paesi: le riprese della seconda serie della fiction ispirata al libro di Roberto Saviano inizieranno a marzo. "Gomorra si e' dimostrato uno dei prodotti di maggiore successo della scorsa stagione - ha spiegato l'executive vice president per Cinema, intrattenimento e news di Sky Italia Andrea Scrosati - e probabilmente sara' il primo film italiano che verra' doppiato negli Stati Uniti, allargando ancora di piu' il pubblico. Abbiamo fatto grossi investimenti - ha proseguito - e da 100 ore di trasmissioni autoprodotte quest'anno siamo passati a 300". Spazio anche alle grandi fiction internazionali su Sky Atlantic Hd, con titoli come House of cards 2, True detective, Boardwalk Empire e Fargo.

Tra le fiction, Sky punta su Papa Giovane, la prima serie tv diretta dal regista premio Oscar Paolo Sorrentino, che racconta sogni, paure e desideri di un pontefice, i Delitti del BarLume, tratta dai romanzi di Marco Malvaldi, e Diabolik-La serie, ispirata al popolare fumetto. Andra' in onda nel 2015 la serie in 10 episodi 1992, da un'idea di Stefano Accorsi, che racconta la stagione di Tangentopoli. L'obiettivo e' quello di raggiungere i picchi d'ascolto di Gomorra, venduta in oltre 70 Paesi: le riprese della seconda serie della fiction ispirata al libro di Roberto Saviano inizieranno a marzo. "Gomorra si e' dimostrato uno dei prodotti di maggiore successo della scorsa stagione - ha spiegato l'executive vice president per Cinema, intrattenimento e news di Sky Italia Andrea Scrosati - e probabilmente sara' il primo film italiano che verra' doppiato negli Stati Uniti, allargando ancora di piu' il pubblico. Abbiamo fatto grossi investimenti - ha proseguito - e da 100 ore di trasmissioni autoprodotte quest'anno siamo passati a 300". Spazio anche alle grandi fiction internazionali su Sky Atlantic Hd, con titoli come House of cards 2, True detective, Boardwalk Empire e Fargo.
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venerdì 11 luglio 2014
NEWS - Emmys Killa! Le scelte di Telefilm Cult dopo le candidature telefilmiche
Miglior drama
Breaking Bad (Amc)
Downton Abbey (Itv)
Game of Thrones (Hbo)
House of Cards (Netflix)
Mad Men (Amc)
True Detective (Hbo)
Miglior comedy
Louie (Fx)
Modern Family (Abc)
Orange Is The New Black (Netflix)
Silicon Valley (Hbo)
The Big Bang Theory (Cbs)
Veep (Hbo)
Miglior attore in una serie drama
Bryan Cranston – Walter White in Breaking Bad (Amc)
Kevin Spacey – Francis Underwood in House of Cards (Netflix)
Jon Hamm – Don Draper in Mad Men (Amc)
Jeff Daniels – Will McAvoy in The Newsroom (Hbo)
Woody Harrelson – Martin Hart in True Detective (Hbo)
Matthew McConaughey – Rust Cohle in True Detective (Hbo)
Miglior attrice in una serie drama
Michelle Dockery – Lady Mary Crawley in Downton Abbey (Itv)
Claire Danes – Carrie Mathison in Homeland (Showtime)
Robin Wright – Claire Underwood in House of Cards (Netflix)
Lizzy Caplan – Virginia Johnson in Masters of Sex (Showtime)
Kerry Washington – Olivia Pope in Scandal (Abc)
Julianna Margulies – Alicia Florrick in The Good Wife (Cbs)
Miglior attore di una serie comedy
Ricky Gervais – Derek Noakes in Derek (Channel 4)
Matt LeBlanc – Matt LeBlanc in Episodes (Showtime)
Don Cheadle – Marty Kaan in House of Lies (Showtime)
Louis C.K. – Louie in Louie (Fx)
William H. Macy – Frank Gallagher in Shameless (Showtime)
Jim Parsons – Sheldon Cooper in The Big Bang Theory (Cbs)
Miglior attrice di una comedy
Lena Dunham – Hannah Horvath in Girls (Hbo)
Melissa McCarthy – Molly Flynn in Mike & Molly (Cbs)
Edie Falco – Jackie Peyton in Nurse Jackie (Showtime)
Taylor Schilling – Piper Chapman in Orange Is The New Black (Netflix)
Amy Poehler – Leslie Knope in Parks and Recreation (Nbc)
Julia Louis-Dreyfus – Selina Meyer in Veep (Hbo)
Miglior attore non protagonista di una serie drama
Aaron Paul – Jesse Pinkman in Breaking Bad (Amc)
Jim Carter – Charles Carson in Downton Abbey (Itv)
Peter Dinklage – Tyrion Lannister in Game of Thrones (Hbo)
Mandy Patinkin – Saul Berenson in Homeland (Showtime)
Jon Voight – Mickey Donovan in Ray Donovan (Showtime)
Josh Charles – Will Gardner in The Good Wife (Cbs)
Miglior attrice non protagonista di una serie drama
Anna Gunn – Skyler White in Breaking Bad (Amc)
Maggie Smith – Violet Crawley in Downton Abbey (Itv)
Joanne Froggatt – Anna May Smith in Downton Abbey (Itv)
Lena Headey – Cersei Lannister in Game of Thrones (Hbo)
Christina Hendricks – Joan Harris in Mad Men (Amc)
Christine Baranski – Diane Lockhart in The Good Wife (Cbs)
Migliore attore non protagonista di una comedy
Andre Braugher – Ray Holt in Brooklyn Nine-Nine (Fox)
Adam Driver – Adam Sackler in Girls (Hbo)
Ty Burrell – Phil Dunphy in Modern Family (Abc)
Jesse Tyler Ferguson – Mitchell Pritchett in Modern Family (Abc)
Fred Armisen – vari ruoli in Portlandia (Ifc)
Tony Hale – Gary Walsh in Veep (Hbo)
Miglior attrice non protagonista in una comedy
Julie Bowen – Claire Dunphy in Modern Family
Allison Janney – Bonnie in Mom
Kate Mulgrew – Galina ‘Red’ Reznikov in Orange Is The New Black
Kate McKinnon – vari ruoli in Saturday Night Live
Mayim Bialik – Amy Farrah Fowler in The Big Bang Theory
Anna Chlumsky – Amy Brookheimer in Veep
Miglior Miniserie
American Horror Story: Coven
Bonnie and Clyde
Fargo
Luther
Treme
The White Queen
Miglior drama
Breaking Bad (Amc)
Downton Abbey (Itv)
Game of Thrones (Hbo)
House of Cards (Netflix)
Mad Men (Amc)
True Detective (Hbo)
Miglior comedy
Louie (Fx)
Modern Family (Abc)
Orange Is The New Black (Netflix)
Silicon Valley (Hbo)
The Big Bang Theory (Cbs)
Veep (Hbo)
Miglior attore in una serie drama
Bryan Cranston – Walter White in Breaking Bad (Amc)
Kevin Spacey – Francis Underwood in House of Cards (Netflix)
Jon Hamm – Don Draper in Mad Men (Amc)
Jeff Daniels – Will McAvoy in The Newsroom (Hbo)
Woody Harrelson – Martin Hart in True Detective (Hbo)
Matthew McConaughey – Rust Cohle in True Detective (Hbo)
Miglior attrice in una serie drama
Michelle Dockery – Lady Mary Crawley in Downton Abbey (Itv)
Claire Danes – Carrie Mathison in Homeland (Showtime)
Robin Wright – Claire Underwood in House of Cards (Netflix)
Lizzy Caplan – Virginia Johnson in Masters of Sex (Showtime)
Kerry Washington – Olivia Pope in Scandal (Abc)
Julianna Margulies – Alicia Florrick in The Good Wife (Cbs)
Miglior attore di una serie comedy
Ricky Gervais – Derek Noakes in Derek (Channel 4)
Matt LeBlanc – Matt LeBlanc in Episodes (Showtime)
Don Cheadle – Marty Kaan in House of Lies (Showtime)
Louis C.K. – Louie in Louie (Fx)
William H. Macy – Frank Gallagher in Shameless (Showtime)
Jim Parsons – Sheldon Cooper in The Big Bang Theory (Cbs)
Miglior attrice di una comedy
Lena Dunham – Hannah Horvath in Girls (Hbo)
Melissa McCarthy – Molly Flynn in Mike & Molly (Cbs)
Edie Falco – Jackie Peyton in Nurse Jackie (Showtime)
Taylor Schilling – Piper Chapman in Orange Is The New Black (Netflix)
Amy Poehler – Leslie Knope in Parks and Recreation (Nbc)
Julia Louis-Dreyfus – Selina Meyer in Veep (Hbo)
Miglior attore non protagonista di una serie drama
Aaron Paul – Jesse Pinkman in Breaking Bad (Amc)
Jim Carter – Charles Carson in Downton Abbey (Itv)
Peter Dinklage – Tyrion Lannister in Game of Thrones (Hbo)
Mandy Patinkin – Saul Berenson in Homeland (Showtime)
Jon Voight – Mickey Donovan in Ray Donovan (Showtime)
Josh Charles – Will Gardner in The Good Wife (Cbs)
Miglior attrice non protagonista di una serie drama
Anna Gunn – Skyler White in Breaking Bad (Amc)
Maggie Smith – Violet Crawley in Downton Abbey (Itv)
Joanne Froggatt – Anna May Smith in Downton Abbey (Itv)
Lena Headey – Cersei Lannister in Game of Thrones (Hbo)
Christina Hendricks – Joan Harris in Mad Men (Amc)
Christine Baranski – Diane Lockhart in The Good Wife (Cbs)
Migliore attore non protagonista di una comedy
Andre Braugher – Ray Holt in Brooklyn Nine-Nine (Fox)
Adam Driver – Adam Sackler in Girls (Hbo)
Ty Burrell – Phil Dunphy in Modern Family (Abc)
Jesse Tyler Ferguson – Mitchell Pritchett in Modern Family (Abc)
Fred Armisen – vari ruoli in Portlandia (Ifc)
Tony Hale – Gary Walsh in Veep (Hbo)
Miglior attrice non protagonista in una comedy
Julie Bowen – Claire Dunphy in Modern Family
Allison Janney – Bonnie in Mom
Kate Mulgrew – Galina ‘Red’ Reznikov in Orange Is The New Black
Kate McKinnon – vari ruoli in Saturday Night Live
Mayim Bialik – Amy Farrah Fowler in The Big Bang Theory
Anna Chlumsky – Amy Brookheimer in Veep
Miglior Miniserie
American Horror Story: Coven
Bonnie and Clyde
Fargo
Luther
Treme
The White Queen
giovedì 12 giugno 2014
PICCOLO GRANDE SCHERMO - Dopo "Fargo" e "True Detective", rivalutate William Friedkin! MGM studia le versioni serial dei suoi film "Killer Joe" e "Vivere a morire a L.A."
Articolo tratto da SlashFilm.com
It seems so long ago, but 2011 was the beginning of the McConaissance, when Matthew McConaughey‘s rep was re-invigorated with the release and/or festival debuts of The Lincoln Lawyer, Bernie, and Killer Joe. The last one, from director William Friedkin, may end up having the longest legs, as it is one of two Friedkin films being used as the inspiration for a new TV series. If it took a path similar to, say, Fargo, we’d watch a Killer Joe TV series in a hot minute.
Speaking to Movies.com, William Friedkin said that there are two different TV series in development based on his past work. MGM is trying to develop a television series on ‘To Live and Die in L.A.’ It won’t be that story at all, but it will be that vibe. They’re also trying to do a series on ‘Killer Joe.’ A Dallas detective who is a hired killer. It will not be the same story, but it will be very edgy, not unlike Fargo. The director said that he has script approvals for the possible To Live and Die series, but doesn’t know if he’ll direct an episode.
Friedkin is out on the promo trail for the restoration of his 1977 film Sorcerer, and that gives him a lot of opportunity to talk about stuff like this. He expands upon the idea of working in television, rather than film.
Articolo tratto da SlashFilm.com
It seems so long ago, but 2011 was the beginning of the McConaissance, when Matthew McConaughey‘s rep was re-invigorated with the release and/or festival debuts of The Lincoln Lawyer, Bernie, and Killer Joe. The last one, from director William Friedkin, may end up having the longest legs, as it is one of two Friedkin films being used as the inspiration for a new TV series. If it took a path similar to, say, Fargo, we’d watch a Killer Joe TV series in a hot minute.
Speaking to Movies.com, William Friedkin said that there are two different TV series in development based on his past work. MGM is trying to develop a television series on ‘To Live and Die in L.A.’ It won’t be that story at all, but it will be that vibe. They’re also trying to do a series on ‘Killer Joe.’ A Dallas detective who is a hired killer. It will not be the same story, but it will be very edgy, not unlike Fargo. The director said that he has script approvals for the possible To Live and Die series, but doesn’t know if he’ll direct an episode.
Friedkin is out on the promo trail for the restoration of his 1977 film Sorcerer, and that gives him a lot of opportunity to talk about stuff like this. He expands upon the idea of working in television, rather than film.
The only thing I’m interested in now is long form, which is what you’d call television …I don’t want to make a feature film, because I don’t want to make a movie about a guy in a mask and a spandex suit flying around and saving the world. I don’t want to see that movie, so why would I make it? And if you do make a serious film today, the chances are it won’t have a bright future in theaters. It could maybe take on an afterlife in home video and cable.Here are the trailers for each original film.
lunedì 8 aprile 2013
PICCOLO GRANDE SCHERMO - Quando il
cinema va in tackle sulla tv
Strana
coincidenza. Scorsa settimana, nello stesso giorno, sono uscite indiscrezioni
Usa via tweet che ben due film diventeranno serial televisivi. Martin Scorsese, mica cotiche, tradurrà
sul piccolo schermo il suo “Gangs of New
York” (2002); i fratelli Coen – mica ciufoli – riprenderanno in mano la
sceneggiatura di “Fargo” (1996),
probabilmente riportando sul set William
H. Macy (attualmente in “Shameless”,
la cui 3° stagione inedita è in onda ogni lunedì su Joi). Altro link cine-televisivo dello stesso sangue è quello dei fratelli Wachowski, firmatari della
saga di “Matrix”, che hanno firmato e porteranno presto alla luce il progetto
fantascientifico “Sense8”. Ha fatto
sfracelli d’ascolto, al debutto americano, “Bates Motel”, prequel di “Psycho” con buona pace di Hitchcock; è partito da pochi giorni
Oltreoceano “Hannibal”, sorta di
chiosa de “Il Silenzio degli innocenti”, e le aspettative sono massime. Il matrimonio
spesso sotto-traccia tra cinema e tv non è mai stato così evidente. La prima
impressione è che la linfa vitale del piccolo schermo sia un po’ agli
sgoccioli, che sia più un’”intrusione” che un volano, che la Settima Arte non
sia più quella cacciatrice di talenti tv di un tempo ma che imponga i suoi
modelli e le sue icone in una terra non più capace di esportare i suoi frutti
oltre i confini tv. Spesso guardandosi indietro – eccezion fatta per i fratelli
Wachowski – più che avanti. Paura del futuro anche prossimo venturo? La partita
è aperta. Nel calcio, ormai, il cosiddetto tackle scivolato, è praticamente
proibito o rischioso. In tv a quanto pare ancora no. (LD)
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