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lunedì 13 luglio 2015

NEWS - Il potere è degli showrunner. Chi sono e cosa fanno i "direttori d'orchestra" delle serie tv (con cachet dai 50 mila dollari e mezzo milione a puntata!)

Articolo tratto da "La Repubblica"
Beau Willimon, Nic Pizzolatto, Shonda Rhimes, Lee Daniels... Chi sono? Semplicemente alcuni tra i più influenti personaggi nel mondo dello spettacolo americano di oggi. Sono gli show runner di alcune delle serie televisive di maggior successo nel mondo: House of cards, True Detective, Grey's Anatomy, Empire. Ma cos’è uno show runner? Suona come “ring-master”, il capomastro di un circo o capocomico di una compagnia teatrale d’altri tempi. E in effetti qualcosa in comune con queste storiche maestranze artistiche gli show runner ce l’hanno: sono coloro che portano avanti, che gesticono lo show, la serie, i veri direttori d’orchestra, i “mister” di una squadra, gli arrangiatori, creativi e motivatori allo stesso tempo.
Per questo, nella Golden Era della televisione, sono diventati figure riverite, rispettate, corteggiate, richieste e anche meglio pagate di Hollywood. Non importa che agli spettatori sfuggano i loro nomi: nel “business” House of cards non è solo Kevin Spacey, è soprattutto Willimon, creatore, capo-sceneggiatore e show runner della premiata serie targata Netflix. Empire non è solo Terrence Howard, è soprattutto Lee Daniels.
Scandal viene forse riconosciuta come la serie di Kerry Washington nel ruolo dell’esperta di “gestione di crisi” e spin-doctor? Nemmeno per sogno: è la sua creatrice e show runner Shonda Rhimes il “capitano”; la stessa di Le regole del delitto perfetto, sull’avvocatessa manipolatrice e femme fatale interpretata da Viola Davis. E ancora: Vince Gilligan, show runner (e creatore assoluto) di Breaking Bad, esempio lampante di uno diventato in poco tempo un “ pezzo da novanta”.
Damon Lindelof, show runner del dramma HBO The Leftovers, spiega così il passaggio da “creatore” di una serie a “capomastro”: «Mi considero prima di tutto uno sceneggiatore che poi è diventato un produttore, che poi è diventato show runner per garantirsi il controllo assoluto sul suo stesso materiale.
Nella stanza degli sceneggiatori riuniti intorno al tavolo mi sento come il membro della giuria popolare in La parola ai giurati, quello che cerca di convincere tutti gli altri che la sua opinione è quella da seguire, nel nostro caso l’idea. Gli altri sceneggiatori mi guardano perplessi e dicono: “Ehi, tu sei il boss, non hai bisogno di convincerci!”. E invece sì: anche io ho bisogno di sentirmi dire che la mia idea è la migliore!».
Alex Gansa, show runner di Homeland conferma: «È brutto dover riscrivere un episodio proposto da qualcuno dello staff. A me è capitato spesso quando ero giovane, e soffrendo ho imparato a usare gli arnesi del mestiere. Un “capitano” deve saper intervenire puntando a tenere insieme la squadra senza far soffrire troppo nessuno. La frustrazione o l’umiliazione non contribuisce mai a un sano processo creativo collettivo».
E una serie televisiva è il massimo del lavoro collettivo: all’idea iniziale, al trattamento del primo episodio, il “pilota” che viene mostrato ai potenziali distributori (canali televisivi) e dalla cui brillantezza dipende il destino della serie (se la puntata “pilota” funziona, aumenteranno le probabilità di aggiungere episodi e stagioni), a questo germe iniziale si aggiungono produttori, produttori esecutivi, un team di sceneggiatori, registi e ovviamente il cast.
L’avvicendarsi dei registi non garantisce la continuità stilistica, estetica e tematica della serie. Ed è qui che entra in scena lo show runner , colui o colei che tiene le redini della carovana, che garantisce la continuità, che imprime il tono (come un direttore d’orchestra), che come un colonnello tiene unite le file dei vari plotoni di un battaglione e “manda avanti la carretta”. I registi vanno e vengono, i produttori pure, gli sceneggiatori anche, ma lo show runner rimane fisso nell’occhio caotico della produzione. È responsabile di budget che arrivano anche a 5 milioni di dollari a episodio (soprattutto per serie storiche come Game of thrones o d’azione no-stop come The walking dead).
Nick Pizzolatto, 35 anni, ex docente universitario di letteratura americana, si sta imponendo come il “golden boy” grazie a True Detective. È lui l’unico comun denominatore di una serie che la HBO già pensa di riprogrammare per altri cinque anni. «Lavoro molto con gli attori - dice - sto con loro sul set, li seguo, ci parlo tra un ciak e l’altro, ripasso con loro le battute. A volte rompo le scatole al regista di turno, che in genere scelgo io, perché voglio difendere quella certa inquadratura che avevo immaginato mentre scrivevo la sceneggiatura. Voglio che ogni regista possa contribuire a suo modo, certo, ma allo stesso tempo ritengo che sia fondamentale che il linguaggio della serie venga rispettato, che non si passi dal letterario al vernacolare o al dialettale senza una ragione. Uno show runner come me, anche se non è il regista di quel dato episodio, e anche se non è lui stesso l’autore del copione, deve far sentire a tutti il fiato sul collo». Dice proprio questo Pizzolatto: fiato sul collo. «Se non facessimo così la serie andrebbe in ogni direzione come una banderuola al vento: lo show runner ha il compito di far soffiare il vento sempre nella giusta direzione, mantenendo la stabilità ».
Queste figure sono un curioso ibrido tra l’artista sognatore e il duro e pragmatico manager operativo: capi cantiere ma anche un po’ poeti. Assumono e licenziano scrittori e attori, sviluppano trame narrative, si occupano di casting, scelgono i registi e analizzano nei minimi dettagli budget e valori produttivi. Vietato sciupare denaro: sarà pure la Golden Era della televisione, ma gli sprechi non sono ammessi. «Veniamo pagati bene - assicura Pizzolatto - non possiamo lamentarci. Ma se lo spettacolo non ha il successo sperato o alla HBO non quadrano i conti, la responsabilità è tutta mia».
Lo show runner guadagna tra i 50 mila dollari a puntata e il mezzo milione: dipende dal successo, dai ratings, dallo share, e soprattutto dalla capacità che ha la serie di tirare avanti per almeno cento episodi, cifra- tetto che si traduce automaticamente in enormi guadagni con relativi diritti sulle repliche - i “rerun” - su qualsiasi rete tv in qualsiasi paese del mondo. Lo show runner di una serie di successo continuerà a ricevere assegni per le royalties vita natural durante.
Eppure ecco cosa racconta Mike Judge, potente show runner di Silicon Valley: «Adoriamo tutti la televisione, certo, ma sotto sotto il nostro sogno nel cassetto è quello di arrivare al cinema, di scrivere per il cinema. L’ideale sarebbe gestire una serie televisiva e fare un film ogni anno. Come sta facendo Seth McFarlane, con il quale ho creato e realizzato Family guy. Adesso lui ha girato Ted e Ted 2 , e io muoio dall’invidia. Anche se mi diverto da matti a fare la parodia dei vari Steve Jobs e dei nerd di Silicon Valley».
Dunque sono gli show runner i nuovi mogul di Hollywood? La nuova vetta dello star system? Dopo i capi degli studios, i produttori, i registi e gli attori, adesso sono loro la nuova potenza nel mondo dello spettacolo che dal grande schermo si sta spostando verso il piccolo. E per giunta creano da soli i loro spettacoli. Se è vero che gli studios - e le piattaforme streaming come Netflix o Hulu - continuano a essere padroni dei loro show, è altrettanto vero che senza un bravo show runner lo spettacolo non marcerebbe. E se si ritira lo show runner , addio contenuto e repliche che anche tra dieci anni portano contanti nelle casse.

venerdì 20 settembre 2013

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri 

Maureen Dowd per il "New York Times", articolo pubblicato da "La Repubblica" - Traduzione di Anna Bissanti
"Carrie Mathison sarà anche stata cacciata dalla finta Cia della serie Homeland, ma lunedì è stata accolta a braccia aperte dalla vera Cia. «La nostra gita a Langley» l'ha definita ironicamente Claire Danes. «Ci è sembrato quasi di essere tornati ai tempi del liceo». (E di sicuro saprà il fatto suo).
L'attrice ammette che in questo caso il fatto che la sua vita si sia così intrecciata all'arte è stato un po' "stravagante", tenuto conto che entrambe le trame sono segrete e non se ne può parlare.
«C'era un lungo tavolo pieno di agenti della Cia e poi c'eravamo noi, seduti proprio di fronte, come se fossimo pronti a scoprire i nostri giochi» dice ridendo. «Loro non potevano dirci niente, in realtà. E noi non potevamo dire loro niente del nostro show. Che genere di conversazione avremmo potuto mai avere?».
La situazione si è fatta ancora più bizzarra quando si è unita al gruppo la compagna con la quale Danes divideva la camera a Yale da matricola, ex agente che ora lavora a Langley come avvocato, vestita per puro caso proprio come il personaggio di Danes. «Tailleur pantalone» dice Danes impassibile. «Non puoi sbagliare».
Alex Gansa, co-autore e show runner di Homeland, ha definito l'incontro di due ore a Langley con le sue star, gli autori, i dirigenti e un gruppo di agenti della Cia uno «scambio in tutta franchezza e libertà sul business dell'intrattenimento e sul mondo dell'intelligence, incontro che ha evidenziato parecchi paralleli». Poi ha elencato ironicamente: «Entrambi costruiamo set. Entrambi interpretiamo ruoli. Ed entrambi facciamo brainstorming: loro sulle operazioni, noi sulle storie delle puntate».
L'agente capo John Brennan ha addirittura accompagnato l'interprete della sua versione fiction, Mandy Patinkin, nel proprio ufficio. Patinkin in seguito ha detto di aver osservato i «massicci libroni rilegati in pelle» impilati sul tavolo delle riunioni, pensando che
invece di essere semplici oggetti di scena quelli contengono «il destino del nostro mondo». Brennann ha raccontato come svolge il compito di tenere costantemente sotto sorveglianza i nemici estremisti dell'America.
(Come ama dire Patinkin, quando interpretava il personaggio di Inigo Montoya per La principessa sposa: «Sono nel business delle rappresaglie da così tanto tempo che adesso che è finita non so proprio che cosa fare del resto della mia vita».)
L'attore ha dato un affascinante ritratto di Saul Berenson, il centro morale dello show. (O forse la talpa, per meglio dire, visti i temi della doppiezza e della bipolarità). Brennan ha raccontato a quella figura paterna spesso afflitta da molte preoccupazioni per la folle erudita Carrie, i suoi dolorosi doveri di padre quando deve incontrare le famiglie degli agenti caduti. Perché il brusco Brennan ha accolto Hollywood?
Si potrebbe pensare che la Cia sia troppo impegnata con quella spedizione così a lungo rimandata di armi ai ribelli siriani, ma questa non è soltanto l'agenzia più paranoica e indecisa in città - tanto bipolare quanto la sorprendente Carrie interpretata da Danes -; potrebbe essere benissimo anche la più consapevole della propria immagine.
Alla Cia hanno ancora i brividi al ricordo delle volte in cui al Congresso alcuni hanno chiesto se non sarebbe meglio chiudere o ridurre l'agenzia: si tratta di un timore riflesso nel debutto della terza stagione della serie Homeland che andrà in onda il 29 settembre.
In quell'episodio si assiste ad alcune udienze del Senato dopo che un'autobomba dei terroristi è esplosa a Langley, facendo fuori i vertici della Cia e a pezzi Carrie e Brody, i nostri innamorati preferiti e predestinati, un mix tra Romeo e Giulietta e Bonnie e Clyde. («Gente malata, gente malata » come ama dire Patinkin, citando sua moglie.)
Così la Cia ha deciso di rischiare il disonore per mano di Peter King, rappresentante newyorchese al Congresso che ha lanciato un'inchiesta che ha portato a un'indagine dell'ispettore generale, per sapere se l'agenzia d'intelligence ha rivelato troppe informazioni riservate a Mark Boal e Kathryn Bigelow, autori di Zero Dark Thirty.
Lunedì sera un'anteprima e un ricevimento glamour alla galleria d'arte Corcoran organizzati da Showtime e da David Nevins, l'innovativo presidente, hanno attirato un gruppo schiamazzante di agenti operativi dell'agenzia come pure Michael Hayden, ex direttore della Cia, e Michael Morell, ex vicedirettore della Cia. Jose Rodriguez, ex capo del servizio segreto della Cia che ha dato l'ordine di distruggere i filmati sulle torture dell'agenzia, era presente e socializzava con tutti.
«Mi fa venire i brividi», ha confidato Gansa, aggiungendo che lo show ha consulenti che «sono ancora agenti in servizio dell'agenzia d'intelligence, mentre molti altri sono agenti in pensione».
Quanto a Danes, che ha vinto gli Emmy Award, ha rivelato di aver ereditato la sua "faccia gommosa e di plastilina" dal padre: «Mio padre non aveva cartilagine nelle orecchie... e io adoro stropicciargli la faccia». Se Carrie forse è "trasgressiva" e "profondamente turbata", dice Danes, «è anche un po' una super eroina, che sbaglia spesso, ma finisce col salvare la situazione».
L'agenzia preferisce fare public relation su personaggi da fiction un po' squilibrati ma devoti che non su quelli veri che brancolano nel buio. Carrie e Saul, che nella nuova stagione sono soggetti a molta più sorveglianza da parte del Congresso di quanta ne riceva la Cia nella vita reale, di fatto hanno dato un forte slancio all'immagine dell'agenzia.
La Cia preferirebbe parlare di programmi illeciti, come gli omicidi mirati, che ritornare sopra ai suoi madornali errori: non essersi accorta del disfacimento dell'Unione Sovietica e del complotto dell'11 settembre di Osama; e aver sbagliato a immaginare che ci fossero armi di distruzione di massa in Iraq e sentirsi sconcertata dalla Primavera araba.
Danes scherza sull'abbraccio di gruppo alla Cia: «Forse c'è questa strana idea per la quale i tuoi successi non saranno mai festeggiati ufficialmente mentre i tuoi flop saranno rivelati a tutti. Ci deve essere una specie di sollecitazione a mettere in mostra in senso positivo anche le proprie vittorie perfino nell'ambito di una fiction'»".

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