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martedì 8 aprile 2014

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri

LINKIESTA
AAA Comedy cercasi!
"È successo en passant. Silenziosamente. Senza dichiarazioni ufficiali. La commedia, quella pura, quella (come vuole la tradizione) dal lieto fine scontato, quella che semplicemente — per dirla secondo il dizionario italiano — “muove il riso”, è morta. Caput. Fine. Lo dimostrano gli ascolti: le comedy nuove tentennano, raggiungono pochi milioni di telespettatori, hanno rating (ovvero percentuali di ascolti calcolate a seconda di fasce demografiche) ridicoli. Le uniche che sopravvivono (e lo fanno bene) sono quelle datate, come The Big Bang Theory o How I Met Your Mother. Loro sì che macinano numeri, ma la ragione va ben oltre la capacità di suscitare risate. Continuano a far sorridere (chi più e chi meno), ma lo fanno perché dopo molti anni, ci siamo affezionati ai personaggi. È dal 2008 che sogghigniamo per l'incapacità di Sheldon Cooper di accettare le convinzioni sociali: dopo 7 anni non possiamo fare a meno di trovarlo deliziosamente adorabile (perché abbiamo imparato a conoscerlo, capirlo e amarlo), ma gli spunti comici dello show sono rimasti esattamente uguali agli albori. E dalle nuove produzioni non arriva linfa vitale. Certo, Brooklyn Nine Nine ha vinto un Golden Globe, direte voi, ed è stata rinnovata per una seconda stagione. Eppure sebbene sia partita con un bacino di 6,17 milioni di telespettatori, la comedy che strizza l'occhio a Scuola di Polizia ha concluso la prima annata registrandone 2,59 (rating del 1.1). Insomma: si può dire tutto tranne che sia uno show che fa faville. Numeri che, confrontati con i drama (anche non eclatanti) fanno ridere: un procedurale ben fatto ma senza infamia e senza lode come The Blacklist registra oltre 10 milioni di spettatori a episodio (rating intorno al 2.7), Resurrection ne fa oltre 11 milioni (3.1). Il divario è reale.


A rendere difficile la vita delle comedy, ora, ci pensa anche un quel nuovo genere battezzato con il nome di dramedy, ovvero “drama + comedy”. Perché la nuova frontiera della risata è questa: il dramma ironico, la commedia dolce-amara, nel pieno rispetto di quel filone che crede che gli ossimori in TV siano di successo. E le dramedy, nemmeno velatamente, nel gioco delle poltrone televisive, stanno accaparrando tutti quei posti destinati ai mostri sacri della risata.
L'ultimo esempio in ordine di tempo è rappresentato da Shameless U.S. Sì, avete capito bene. Shameless: la serie che racconta le vicende di papà Frank Gallagher, ubriacone di prima categoria, che a forza di whisky si è consumato il fegato e ha abbandonato a se stessa la numerose prole. Quella che segue la storia di Fiona, la sorella maggiore “responsabile” che soffoca i momenti di crisi con party a base di cocaina. Quella dove i ragazzetti vanno a scuola con i coltelli nello zaino e le quattordicenni minacciano di morte la nuova ragazza del proprio ex (che poi, a 14 anni, hanno già un ex? Basta poco per far sentire la generazione degli figli anni Ottanta/Settanta vecchia, vecchissima).



Insomma, Shameless ora è una comedy, perché è in questa categoria che lo show ha deciso di partecipare ai prossimi Emmy. Ma non è l'unica: Orange is The New Black, la pluripremiata Girls, il nuovo show di HBO Looking sono tutte produzioni che non il concetto di comedy (da un punto di vista di format e di contenuto) non vanno proprio a braccetto ma che quando devono essere premiate (o sperano di esserlo) finiscono puntualmente per optare per questa categoria. Meritando, tra l'altro, le ambite statuette. Ridere non è mai stato così difficile. Dario Fo, uno che gli stilemi comici li ha saputi inserire in tutti i suoi lavori, potrebbe dirla così: questa è l'epoca della morte accidentale della commedia. (Alessia Barbiero, 02.04.2014)

sabato 26 ottobre 2013

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover, libri e commenti sui telefilm 

Uscito "Un anno con il Serial Club", il primo libro social-televisivo

Dieci serie TV, dieci capitoli, dieci persone. Dieci amici, anche se non si sono mai incontrati faccia a faccia. Dieci addicted, famelici non solo di episodi, ma anche di opinioni. Un anno con il Serial Club è il primo libro social-televisivo, scritto a più mani, perché, per dirla parafrasando Montale, se “con quattro occhi si vede di più” figuratevi con venti.  L'obiettivo del volume #0 di questa collana è quello di identificare e analizzare le dieci produzioni più significative dell'annata a cavallo tra settembre 2012 e agosto 2013. La scelta è stata fatta prendendo come modello un paradigma ambizioso, quella utilizzato dal magazine Time per stilare le cento personalità più influenti dell'anno. Allo stesso modo il libro assegna le etichette di artisti, titani, leader, pionieri e icone della televisione seriale. L'idea di realizzare una collana “collettiva” è di Alessia Barbiero, giornalista professionista. Un anno con il Serial Club è scritto con l'aiuto di altri 9 membri (8 autori e un illustratore), appartenenti al gruppo nato su Twitter un anno e mezzo fa ma traslocato velocemente su Facebook. Si tratta di un gruppo aperto ma non affollato che racchiude i fanatici del settore, che si sono prestati per questa avventura che è al tempo stesso un esperimento sociale e un'analisi critica e dettagliata di tutti quei prodotti che hanno contribuito a elevare la televisione seriale a cultura popolare.

INFORMAZIONI PRATICHE
Il libro è una produzione indipendente ed è in vendita in versione ebook e versione cartacea su Amazon. E' a cura di Alessia Barbiero. Le illustrazioni sono di Marco Gasperetti. Gli autori che hanno collaborato alla stesura dei capitoli (in ordine di comparsa nel testo) sono Riccardo Cristilli, Greta Cortesi, Elisabetta Porcu, Samuele Magnante, Gloria Cadeddu, Davide Allegra, Davide Consolandi, Stefano Mastropaolo.

mercoledì 7 novembre 2012

L'EDICOLA DI LOU - Stralci e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri

LINKIESTA
Elezioni Usa e getta in serie...
"Mi emozionano. Non so dire razionalmente perché. Ma lo fanno più delle elezioni italiane. Le elezioni americane mi commuovono, mi fanno sentire partecipe, mi travolgono. E’ tutta pancia, lo so. Non c’è nulla di testa. Non sono una di quelle che crede che un uomo possa cambiare il mondo. So che non esiste una persona con questo potere, nemmeno il presidente degli USA, questa figura così affascinante da riempire il mio (e il nostro) immaginario televisivo e cinematografico. Non sono una fanatica del mondo americano, anzi alle volte mi trovo a ridere e irridere della semplicità della gente che vive negli States, che non mette piede fuori dal loro immenso territorio e che pensa che la vita sia tutta lì. Non sono nemmeno una di quelle che pensa che Obama sia Dio e Romney il diavolo. Certo, non nascondo la mia felicità per il risultato di queste elezioni, però so che Obama non farà tutto quello che mi “aspetto” che faccia, che ci saranno decisioni di politica estera che non approverò, che rimarrò delusa dai “compromessi” a cui immancabilmente scenderà. Ne sono conscia, già da ora. E’ un po’ la croce della Politica, questa. La consapevolezza che ci deluderà, in fondo ogni volta (continuo a pensare che la migliore metafora della Politica attuale ce la fornisca Veep, con quell’immagine del presidente ombra che non chiama mai e non si vede mai).
Eppure dalle elezioni americane vengo puntualmente travolta. Affascinata da quell’ondata di nazionalismo che io, ad esempio, per l’Italia (pur votando SEMPRE) non sento. Quel nazionalismo positivo, intendo. Quello spirito di sentirsi parte di un tutto, come quello che si respira durante un concerto, quando il coro del pubblico estasiato si innalza con il dolce suono della stessa canzone.
La Tv seriale in questo mio coinvolgimento ha senza dubbio un forte peso. Sentire Eva Longoria, la casalinga disperata Gabrielle Solis, parlare apertamente a sostegno di Obama durante la Convention Democratica, mi ha stupito: lei con la presidenza Romney risparmierebbe in tasse. Ma la Eva Longoria che lavora a Hollywood non ha bisogno di pagare meno tasse – ha detto – la Eva Longoria ragazzina che faceva fatica a pagarsi gli studi, quella sì aveva bisogno di meno tasse.
E ancora le parole, i tweet, la presa di posizione di Kate Walsh, Ian Somerhalder, Lena Dunham, Sophia Bush e di una lunga serie di eroi del piccolo schermo (che ho amato, televisivamente) mi hanno permesso di avvicinarmi alla politica americana, di sognare e sperare per i loro piccolo successi sociali, di parteggiare per le loro cause (che poi, in termini di politica sociale, sono anche le nostre).
Obama e serialità televisiva: il rapporto è stretto più che mai. Nel mio libro (Settimo Potere – Come le serie TV influenzano la vita sociale e politica) ne ho parlato approfonditamente. E questo sarà anche il tema della mia prossima puntata-radio di Fuoriserie sul Serialclub su Radiophonica, in onda domani alle 15.15 e, in replica, alle 19.30 (caricherò, in seguito, il podcast per tutti gli interessati)".
(Alessia Barbiero, 07.11.2012)

venerdì 5 ottobre 2012

NEWS - Achtung, anche Obama è uno serial...L'America a puntate alla viglia delle elezioni, nel libro must di Alessia Barbiero
Ci siamo. E' nella libreria virtuale di Amazon e tra pochi giorni sarà presente anche la versione cartacea. E' in vendita il primo libro di Alessia Barbiero "SETTIMO POTERE - Come le serie TV influenzano la vita sociale e politica". Cinema di serie B, prodotti minori: questi e tanti altri epiteti hanno macchiato la fama della serialità televisiva. Ma l’America di Obama ha dimostrato come ormai le serie TV non solo siano entrate nel mito di Hollywood, ma abbiano trovato un proprio spazio all’interno del dibattito politico a stelle e strisce, influenzando le scelte dell’elettorato, manipolando e creando idee. Ormai è un fatto assodato: le serie TV sono il settimo potere e il loro legame con la vita politica e sociale è stretto, indelebile, a tratti parassitario. Un libro pensato per gli addicted che non si perdono una puntata dei propri telefilm preferiti. Ma un libro pensato anche e soprattutto per i curiosi, per tutti coloro interessati a scoprire in che misura la componente mediale della televisione sia ormai fuoriuscita dalla “scatola delle meraviglie” per approdare nel mondo reale. Un mondo in cui finzione e realtà si incontrano, si scontrano, si sovrappongono
Chiosa l'autrice: "E' la storia di una passione. Nata sulle pagine di Linkiesta. Perché io fanatica di serie TV lo sono sempre stata. Sin da quando ho memoria. Sin dalla "Casa nella prateria" e dalla "Signora in giallo" che condivano le mie giornate di gioventù. E' la storia di una rivalsa: perché fare la giornalista di serie TV non è semplice. Sei snobbato dai colleghi di cronaca e politica (loro sì che fanno cose serie) ma sei snobbato anche da chi scrive di cinema: quella sì che è arte allo stato puro. E' una storia di cambiamenti perché la realtà è che sono nata - giornalisticamente parlando - proprio come cronista, spedita a destra e a manca per Milano a caccia di notizie, tra l'amianto delle vecchie case popolari, i disordini dei campi nomadi e i servizi sui pendolari. Poi la disillusione: diversi anni a lavorare sino a tardi e a ingoiare sconfitte, perché il fantomatico contratto non arriva mai. E quindi è diventata la storia di una scelta di vita: valigia alla mano, pronta per una nuova avventura. Destinazione Olanda. E un anno e mezzo fa decido di aprire un blog su Linkiesta. E' iniziato tutto per caso: in poco tempo sono diventata uno tra i più letti (e continuo a rimanerlo nonostante negli ultimi due mesi sia stata decisamente latitante): E QUI E' DOVEROSO UN GRAZIE. Sincero, sentito, di cuore, a tutti. A chi mi ha letto, criticato, commentato, a chi ha discusso con me e contro di me. Poi l'ordine dei giornalisti mi ha riconosciuto il praticantato d'ufficio e si è aperta la strada del professionismo. Infine, è arrivata la collaborazione regolare con Sky. E quella passione è diventata il mio lavoro. Un libro non è mai un punto d'arrivo. Lo so. Ma oggi un po' di soddisfazione me la concedo. In SETTIMO POTERE c'è un po' del mio bagaglio personale: ci sono le serie TV, c'è la politica americana che sempre mi ha affascinato, ci sono Obama e Romney e le imminenti elezioni, c'è la storia degli States, studiata in più occasioni durante il mio percorso universitario. Un'idea nata anche grazie a voi, che questo mio percorso l'avete seguito in tempo reale".

mercoledì 8 agosto 2012

L'EDICOLA DI LOU - Stralci e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri

LINKIESTA
"The Newsroom ", dilemma amletico sul giornalismo
Era la serie che aspettavo con ansia. La data dell'inizio, negli States, di The Newsroom me l'ero persino segnata sul calendario. Per tre motivi: è HBO, sinonimo di garanzia. E' Sorkin, sinonimo di garanzia (l'ho già detto??). Ed è una serie TV sul giornalismo, quindi non potevo non sentirmi chiamata in causa.

Premetto: non dirò che The Newsroom (stando alle prime tre puntate che sono andate in onda) è un capolavoro. Perché non lo è. E' una serie ben fatta (e già i motivi uno e due costituiscono solide basi per dirlo) ma qualche pecca ce l'ha. Aaron Sorkin (quel gran genio di The West Wing - un capolavoro da recuperare, appena potete) è bravissimo nello scegliere il tema da trattare (colmando anche dei gap televisivi), nella tecnica narrativa (il walk and talk che ha fatto il successo di The West Wing si trova anche qui), nel toccare le giuste corde. Solo che è dannatamente idealista. Già nella serie TV sull'operato dell'Ala Ovest della Casa Bianca questo aspetto era più che palesato: ma forse la politica (che non vivo di prima persona) mi piace vederla così. Immaginarla migliore di quello che è.
Beh, tutta quella idealizzazione che investe il mondo del giornalismo mi spiazza. E un po' mi lascia interdetta. Mi spiego meglio: a me The Newsroom sta piacendo. Moltissimo. Mi sono venuti i brividi ascoltando il monologo iniziale del protagonista, l'anchorman Will McAvoy, che durante un talk show, vomita in TV tutta la sua rabbia per un Paese, il suo, che si aggrappa alla convinzione di essere la nazione più grande del mondo.
Siamo settimi al mondo per alfabetizzazione, 29esimi in matematica, 22esimi nelle scienze, 49esimi per aspettativa di vita, 178esimi per mortalità infantile, terzi per reddito familiare medio, quarti per forza lavoro ed esportazioni. Siamo i primi al mondo soltanto in tre settori: numero di cittadini in carcere pro capite, numero di adulti che credono negli angeli e spese per la Difesa, settore in cui spendiamo più di 26 nazioni insieme, 25 delle quali sono nostre alleate. Se va così non è certo colpa di una studentessa ventenne, ma non c'è' dubbio che tu faccia parte della generazione peggiore di tutta la storia delle generazioni. E quando mi chiedi perché siamo il più grande paese del mondo, non capisco nemmeno di che cazzo stai parlando. Del parco Yosemite?
Da qui il punto di rottura e la decisione di trasformare il suo programma in un nuovo prodotto che abbracci quell'ideale aulico di giornalismo, dove non si asseconda, ma si tirano fuori i cosiddetti e si offre al pubblico un servizio come si deve. Cosa non va? Assolutamente nulla. E allora cosa mi lascia interdetta? Il punto è che chiunque decide di fare giornalismo, prima o poi, affronta questa fase in cui dall'idealismo si è costretti a fare i conti con la realtà. La visione utopica che avevo quando ho iniziato a studiare giornalismo all'Università si è scontrata con il vero lavoro in redazione, che per quanto eccitante e bellissimo, è un lavoro fatto di compromessi e che spesso predilige quell'infotainment che va tanto di moda ai fatti e alle notizie intelligenti.
Nessun giornale (nella realtà) si sarebbe fatta scappare la gaffe di Sarah Palin (e nessuno l'ha fatto) ma nel tg ideale ipotizzato dalla nuova produttrice esecutiva di News Night questo è possibile. Un programma dove gli ascolti non influiscono, la pubblicità nemmeno, e dove le idee del giornalista sono palesate (in barba al modello della fairness e della credibility tanto osannato dal primo quotidiano inglese, il Daily Courant, precursore di un genere). Il giornalismo a cui si appiglia The Newsroom è quello di denuncia, giudizio, condanna e assoluzione, sulla scia del giornalismo francese nato con la Rivoluzione del 1789 basato sulla convinzione che tutto ciò che i giornalisti scrivono contribuisce a formare le sorti (politiche e sociali) di un Paese. Certo, Sorkin come ha più volte ribadito non ha nessuno scopo documentaristico: "i miei obblighi non sono verso la verità - aveva detto a proposito di The West Wing - il mio obbligo sta nel catturare la vostra attenzione". Tuttavia dietro all'esaltazione per un ideale in cui ho creduto, che ho sostenuto e che mi ha deluso (i titololi solo per acchiappare lettori, le notizie urlate: quale giornale si salva da tutto questo?), non posso fare a meno di sentirmi un po' amareggiata. Ecco questo è l'effetto di The Newsroom su di me: mi esalta e mi commuove, ma al tempo stesso mi fa riscoprire disillusa"
(Alessia Barbiero)

venerdì 10 febbraio 2012

NEWS - "Lost" and never found! E' giusto cercare un erede a tutti i costi del serial di JJ Abrams? Un interessante post su "Linkiesta" scatena il dibattito (senza fine apparente) sulla pagina dell'Accademia dei Telefilm...
E' bastato un post sulla pagina Facebook dell'Accademia dei Telefilm per scatenare un dibattitto senza fine apparente: è giusto cercare a tutti i costi l'erede di "Lost"? Merito (o meglio causa) del disputarsi, un doppio ed interessante post di Alessia Barbiero su "Linkiesta" che, un pò provocatoriamente e un pò no, getta l'amo: sarebbe ancora un cult oggi "Lost"? E' giusto cercare un erede a tutti i costi? Sono penalizzati i nuovi titoli di Abrams tipo "Fringe" e "Alcatraz"? E' stato davvero un capolavoro il serial di JJ Abrams? "Dexter" sarebbe potuto diventare uno stracult ancora più potente senza "Lost" alle spalle? Insomma, tanti quesiti e tanti pareri, che suscitano discussione, repliche, contro-repliche, idee per nuovi quesiti e provocazioni...

In ordine cronologico, ecco di due interventi di Alessia Barbiero su "Linkiesta". Per seguire il dibattito scaturito, potete accedere/iscrivervi alla pagina Facebook dell'Accademia dei Telefilm.


Okay, a qualche settimana di distanza mi trovo a dover ritrattare la mia posizione su Alcatraz. La foga iniziale, quella legata all'immaginario potente di The Rock, si è allentata. Ora prevale un po' la delusione: dietro all'idea bella anche se non originale (l'abbiamo già detto, lo stampo di The 4400 è più che palese), la nuova serie di JJ Abrams si struttura alla mo' di un normale procedural. Ogni puntata ha il suo ex carcerato da ritrovare e rinchiudere in gabbia. Di 'sto passo, sembra che a fare follie saranno solo le ultime puntate, quando magari si approfondirà un po' la questione del "perché?", "come mai?", "cosa è successo in realtà?". Insomma, quando si darà largo spazio al mistero. In Rete la serie è osannata e criticata a destra e a manca, un po' come è normale che sia: c'è lo zampino di Abrams e lui, dopo Lost, lo si ama o lo si odia.
Dopo Lost, appunto. Anche io più volte mi sono slanciata nel nostalgico richiamo del serial dei sopravvissuti al disastro aereo. Anche io più volte ho sperato nell'arrivo di un degno erede, un po' orfana da quando Sawyer, Kate e Jack non mi fanno più compagnia. Razionalmente però mi rendo conto che questo continuo confronto è assurdo perché - qui lo dico e qui lo nego - Lost è tutto fuorché un capolavoro. Razionalmente, intendo. Arrivi alla fine di sei stagioni dannatamente intriganti e ti chiedi: "boh, ma ha senso?". Le critiche che sono piovute sul finale erano tutte più che legittime, smorzate se vuoi dalla passione smodata per questa serie che ci ha fatto sognare più delle altre. Il fumo nero, gli orsi che attraversano la foresta, il viaggio avanti e indietro nel tempo: insomma un calderone di quelli incredibili. Forse, se Lost fosse arrivata oggi, così come arriva Alcatraz (ma solo per farne un esempio) non sarebbe durata sei stagioni, non avrebbe raggiunto audience così soddisfacenti. Perché rispetto a una decade fa il pubblico della televisione seriale è cambiato. Mi spiego: siamo sempre noi, a cui si aggiunge la nuova generazione, ma è un pubblico più esigente, più attento. E' - siamo - un pubblico che prestiamo caso alla sceneggiatura, alla trama che fila, alla caratterizzazione dei personaggi, alla fotografia, alla musica.
Insomma, forse l'erede di Lost c'è, ce ne sono più di uno. Quella che manca è una serie rivoluzionaria, come fu a suo modo Lost (nel creare quell'attaccamento alla TV seriale che prima non esisteva). Una serie suis generis, una vera novità. Impresa non facile, ma noi TV series addicted ci speriamo.


La Rete è bella perché è varia. La Rete è bella perché qui si discute, si critica, ci si arrabbia. Il mio post dell'altro giorno, quello in cui asserivo un po' provocatoriamente un po' seriamente che oggi Lost non ci piacerebbe, ha suscitato un'interessante discussione su Facebook, all'interno di una pagina "in" per gli amanti delle serie TV, ovvero Accademia dei Telefilm. Eccomi quindi a provare a spiegare il mio punto di vista, che come tale deve essere preso: un punto di vista.
Chi legge il mio blog da sempre sa che più di una volta mi sono trovata a citare Lost, a rivangare i bei tempi in cui guardavo l'opera maxima di JJ Abrams e a essere un po' nostalgica di quel periodo. Perché una serie così rivoluzionaria, dopo Lost non c'è ancora stata. Ci sono stati tanti che hanno provato a presentarsi come eredi, lo stesso Abrams ha tentato di bissare il suo successo, ma con miseri risultati. Miseri non tanto perché i prodotti non siano interessanti (Fringe - ad esempio - va avanti da quattro stagioni e anche se di tanto in tanto è un po' troppo cervellotico e a tratti ridondante continua a mantenere un buon livello) ma perché non hanno minimamente ricoperto il gap che la fine di Lost ha lasciato. Hanno provato a giocare con le stesse armi che hanno reso Lost vincente (i grandi temi, i contrasti, la tecnica narrativa), ma senza esiti. Da questo punto di vista, Lost è rivoluzionario. Ma non dico nulla di nuovo.
Che Lost sia destinato a entrare nella storia è certo: è già parte della storia, come del resto fanno tutte le rivoluzioni. Il punto non è se annoverarlo o meno tra le serie che hanno cambiato il nostro rapporto con la televisione, su quello nessuno discute. Il punto è che a mente fredda, pensando oggi al prodotto finale, Lost non è un capolavoro. E, ribadisco, lo dico e lo nego perché razionalmente ne sono convinta, emotivamente io sono una di quelle che l'isola l'ha fatta sua. Però è oggettivo che sono tante le cose che "ci siamo fatti andare bene", perché "coinvolti" nella serie. Non era una serie perfetta, quindi quel eh no, Lost non si tocca è inadeguato. Non era perfetta perché di tanto in tanto riempiva la trama di parentesi non chiuse, di interrogativi aperti. Lo stesso finale, con la chiusa esistenzialista, il misticismo che pervade la scena, il limbo in cui si trovano i personaggi che non hanno trovato altre amene vie di fuga (come Mr. Eko) o altri inferni (come Micheal) può piacere o non piacere, ma onestamente non è originale. Nel momento in cui è diventato troppo complicato gestire un prodotto del genere si è puntato sulla più classica delle interpretazioni, il gioco eterno e irrisolto tra Bene o Male (che si può leggere con tutte le sue sfumature - fede e miscredenza, luce e buio e via dicendo).
Se Lost non ci fosse stato, otto anni fa, ci sarebbe stata un'altra serie del genere a prendere il sopravvento. Lost è stata una delle prime a fare della battaglia tra yin e yang il suo punto di forza, ma in quel periodo stavano nascendo altri prodotti che, a modo loro e completamente diversi, ruotavano su questi temi. Dexter, che nasce due anni dopo Lost, avrebbe potuto essere il Lost di quella generazione (perché il tema della fede se è palese solo nell'ultima stagione, pervade da sempre l'universo di questa serie. Ma anche qui la fede è solo uno dei temi). Ma Dexter è solo un esempio: il punto è che una decina di anni fa, il pubblico (noi, io) era pronto a una serie di questo tipo. Una serie che poteva lasciare tanti punti di domanda, che fosse confusionaria, che lasciasse un finale aperto alle interpretazioni, un finale di cui tanti hanno avuto bisogno di chiedere spiegazioni. Una serie che ci facesse vedere una realtà diversa, una serie introspettiva che mettesse a tacere il nostro bisogno di rendere tutto scientifico.
Oggi no. Un'altra serie di questo tipo, molto probabilmente, oggi la molleremmo alla fine della prima stagione. Ecco il succo del mio discorso: cercare in modo così ossessivo un erede di Lost è da folli. Perché un altro Lost oggi non lo vorremmo, oggi non lo apprezzeremmo. Vogliamo novità, quella novità che Lost 8 anni fa seppe dare, ma che oggi tuona così maledettamente retrò. E non è uno sminuire la serie, ma un modo per dire: ragazzi, andiamo avanti.

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