Articolo tratto da "La Stampa"
"Lo spunto è
arrivato da un episodio della serie «La signora in giallo», dove i
protagonisti avvelenavano l’anziano parente con il topicida per ricevere
l’eredità. Alla fine «giustizia ha trionfato». Ma Elisabetta Martini,
62 anni, e il figlio Marco Coggiola, di 36, hanno creduto di aver
imparato i segreti per il delitto perfetto. Sbagliavano. Sono stati
arrestati dagli investigatori della Squadra Mobile (diretta da Luigi
Silipo), che hanno addirittura filmato il tentativo di uccidere la zia
P. M., di 97 anni, ricoverata nella casa di riposo «Villa dei Tigli», a
Cavour. Elisabetta
(difesa da Monica Commisso) è figlia della sorella dell’anziana
diventata bersaglio del tentato omicidio, sventato dalla polizia. E
Marco (avvocato Giuseppe Caprioli) è suo figlio. I due vivono con la
pensione di reversibilità del marito di Elisabetta, morto da tempo.
Hanno cercato di incrementare le entrate con un allevamento di cani.
Ironia della sorte, la razza era il volpino. Ma gli affari non pare
vadano molto bene. Tanto
che già tre anni fa Elisabetta è finita nei guai. All’epoca era
«amministratrice di sostegno» dei beni dell’anziana zia, ma «dimenticò»
di pagare oltre 30 mila euro della retta per il soggiorno nella casa di
cura. Il giudice civile le tolse il «portafogli» e la denunciò.
Risultato: sei mesi «patteggiati» per appropriazione indebita. Da quel
momento, i beni dell’anziana sono gestiti dall’avvocato Roberto Buffa,
su incarico del giudice civile.
Il
telefilm ha ispirato Marco, che ha rilanciato l’idea alla madre. E lei
ha accettato: «Ho deciso di uccidere mia zia 3-4 mesi fa, con il veleno
per topi. Lei parlava spesso di “volerla fare finita”. Poi, ho pensato
che avrei potuto ripianare i debiti con la vendita del suo appartamento»
ha raccontato Elisabetta ai pm Anna Maria Loreto e Francesco Pelosi.
Versione confermata davanti al giudice per le indagini preliminari
Gianluca Robaldo. L’anziana è proprietaria di un alloggio con garage e
in banca ha oltre mezzo milione di euro. «L’idea
era di somministrare il veleno un po’ per volta, in modo da simulare
una morte per cause naturali» ha confessato Elisabetta. La prima volta
risale a metà marzo. «Avevo inserito il veleno in una siringa e ho
introdotto» il topicida «nel caffè e ho dato la tazza a mia zia».
L’anziana faticava a deglutire e così «ho dovuto aiutarla io a bere» ha
spiegato Elisabetta.
Lo
stesso è avvenuto il 27 marzo, con tanto di ricovero in ospedale a
Pinerolo. Sembrava l’effetto di un sovradosaggio di farmaci e l’anziana è
stata rimandata in casa di cura. Altra siringata di veleno nel caffè il
3 aprile e nuovo ricovero in ospedale. Questa volta, però, il dirigente
medico della casa di riposo ha intuito che i valori degli esami del
sangue erano incompatibili con le condizioni generali e con le terapie
dell’anziana. I
medici dell’ospedale di Pinerolo hanno inviato campioni di sangue per
un esame tossicologico a un centro specializzato di Pavia. Risultato:
tracce di «Difenacoum», principio attivo dei topicidi. La segnalazione è
rimbalzata all’avvocato Buffa e da lui al giudice tutelare, alla
procura e agli agenti della Omicidi, coordinati da Luigi Mitola.
La
trappola per madre e figlio è scattata dopo un mese e mezzo di
intercettazioni telefoniche, ma anche ambientali, con una «cimice» nella
camera dell’anziana. In varie occasioni, i poliziotti hanno visto i
movimenti sospetti di madre e figlio: lei vicino al letto, lui accanto
alla porta a fare da «palo», con gesti e ammiccamenti per far capire
quando era il momento di agire.
Più volte hanno desistito e gli agenti hanno deciso di non intervenire.
Il
momento propizio è arrivato alle 16 del 3 giugno, quando i due
allevatori di volpini sono andati in clinica per somministrare
l’ennesima dose di veleno. Questa volta, avevano scelto di mescolare il
topicida a una gelatina di frutta. Elisabetta titubava, ma il figlio
l’ha rassicurata «Dai, che cosa vuoi che succeda?». Nella stanza
accanto, erano appostati gli agenti della Squadra Mobile. The end.
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