RIVISTA STUDIO
L'eredità di "Girls"
Quando Glamour US ha dedicato la sua copertina di febbraio alle quattro ragazze di Girls per celebrarne l’ultima stagione (appena iniziata su Hbo), in quel mondo microscopico che è il Twitter italiano ne è nata una piccola, piuttosto sciatta, polemica, riflesso di quella più ampia che si è scatenata in lingua anglofona. Su quella copertina ci sono Lena Dunham, Allison Williams, Jemima Kirke e Zosia Mamet issate su quattro paia di monumentali zeppe Marc Jacobs, le stesse che in sfilata avevano un tono molto più gotico e decisamente meno zuccheroso. La foto è di quelle patinate da rivista femminile (e non di moda, perché esiste una differenza che è bene rimarcare) e i commenti si sono accaniti, tanto per cambiare, sul corpo di Dunham, come sempre dall’aprile del 2012, quando abbiamo conosciuto Hannah Horvath per la prima volta. Quella cellulite sulle gambe è forse quanto di più tangibile abbia prodotto il femminismo social di noi Millennial negli ultimi anni: un giornale che al posto della solita ragazza copertina, quella bianca, sorridente e/o ammiccante e sempre in forma, ne sceglie una sempre bianca, un po’ sovrappeso, con indosso un paio di pantaloncini che non nascondono le imperfezioni che le cosce delle donne possono avere, e sceglie di ritoccarla ovunque tranne che lì.
Il lancio della cover è coinciso con una presa di posizione da parte della redazione, che ha tenuto a ribadire come quel numero fosse stato interamente prodotto da donne: le ragazze della copertina, insomma, non erano le uniche a essere celebrate. Per quanto apprezzabile fosse l’intenzione, però, si è parlato inevitabilmente e soprattutto di quella cellulite, e di quanta poca giustizia rendesse all’intero movimento, e di come ne fossimo tutti in qualche modo scontenti, intanto perché la foto non era poi così esteticamente rilevante – e qui la rivista di moda fa la differenza, vedi come da AnOther Magazine avevano lavorato con la Primavera Estate 2014 di Rick Owens – e poi perché, ancora una volta, quella era la cellulite di Lena Dunham. Ma non avevamo finito di discutere del suo corpo? D’altronde, da quando la serie da lei scritta insieme a Jennifer Konner è arrivata sui piccoli schermi di tutto il mondo, non abbiamo fatto altro che parlare di quel corpo, tra chi lo osannava come rivoluzionario nel suo essere difforme e chi teneva invece a sottolinearne la normalità (perché di ragazze così in giro ce ne sono tante, basta prendere la metropolitana di una grande città, è che non sono rappresentate, non sono tutte mica come Charlize Theron, ma neanche come Emma Stone o Dakota Johnson, e lo sbaglio è tutto lì).
Come la stessa Dunham ha più volte dichiarato durante le interviste, l’attenzione nei confronti del suo aspetto fisico ha finito per sorprendere anche lei, che pure ha fatto del corpo il suo primo, e più veritiero, mezzo espressivo. Ha scritto Manhola Dargis nel commiato a sei voci del New York Times a Girls, «Ogni volta che il personaggio di Dunham, Hannah, mangia degli spaghetti o si spoglia di fronte alla telecamera, parla o fa sesso (…) è un momento di particolare rilevanza. In quei momenti, sta ridefinendo la bellezza femminile e il valore di una donna. Le donne possono avere moltissime forme, taglie e colori, ma non si direbbe a guardare i prodotti dell’arte o quelli della cultura pop, che per lungo tempo hanno venerato un certo di tipo di donne e relegato tutte le altre – e in particolare le donne di colore – ai margini o all’invisibilità». Un lascito innegabile di Girls sarà allora proprio questo: farci discutere accanitamente di corpi delle donne, sbatterceli in faccia così come sono, a volte sodi, a volte meno, quasi fastidiosi perché “realistici”, come le ormai celebri scene di sesso.
La stessa discussione sulla non diversità e l’egocentrismo così bianco delle protagoniste, è la diretta conseguenza e dimostrazione di questo discorso. Sì, Lena Dunham, ragazza prodigio figlia di artisti, è tanto bianca quanto il mondo che ha immaginato per le sue ragazze, una New York dove d’improvviso le radici più esotiche sembrano essere quelle inglesi di Jessa (Jemima Kirke) e dove i ragazzi neri, che compaiono di sfuggita solo nella seconda stagione come prima risposta alle critiche, sono anche repubblicani. Se è vero il principio secondo cui si può fare arte soprattutto con ciò che si conosce bene, a posteriori possiamo riconoscere un certo accanimento (pari almeno all’iniziale coro di lodi sperticate) nei confronti di Lena Dunham, la cui crescita artistica è avvenuta tutta sotto i riflettori, come quella di una baby star dal vezzo intellettuale. Hanno certamente contribuito al linciaggio social – che l’ha portata negli anni ad abbandonare Twitter e a ridurre drasticamente la sua attività su Instagram – alcuni suoi atteggiamenti poco digeribili, ma anche una pericolosa fusione fra il suo Io reale e quello fittizio, fra Lena e Hannah, che molto spesso hanno finito, agli occhi dello scrutinio pubblico, per confondersi e sciogliersi l’uno nell’altro.
Eppure una è un personaggio, il più delle volte odioso e costruito apposta per farci riflettere sull’inconsistenza narcisistica di una generazione – la nostra – e l’altra, ci piaccia o meno, è una donna vera. In principio è stata la piuttosto deludente autobiografia Not that kind of girl (Random House, 2014), quella del contratto milionario, ad attirarle l’odio di una foltissima schiera di commentatori seriali; più recentemente, sono arrivati alcuni suoi interventi in forma di attivismo offuscati da una quasi dolorosa inconsapevolezza del proprio ruolo sociale. Come quando ha dichiarato, con la più candida intenzione di denunciare l’importanza del programma Planned Parenthood, che avrebbe voluto aver subito lei stessa un aborto per sapere cosa si prova, o quando ha attribuito la sua drastica perdita di peso alla vittoria di Donald Trump: ma che davvero, Lena? Il suo femminismo e lo stesso suo concetto di attivismo, che tanto ci erano piaciuti quando nel 2015 ha lanciato la sua newsletter a tema donne, Lenny’s Letter – ispiratrice di moltissimi progetti che oggi nascono a tema girl power! che neanche le Spice Girls – sono diventati un’altra cosa.
Il matricidio, d’altronde, è più che compiuto, e cose migliori della serie scritta da Dunham ci sono già, basta pensare a Fleabag, Broad City o Master of None fra gli altri. Eppure sono cose che senza Girls non sarebbero esistite, così come quest’ultimo, a sua volta, non sarebbe potuta succedere senza Carrie Bradshaw e Sex and the City, da cui pure si discosta moltissimo. Anzi, la sua influenza è tutta lì e seppure, alla fine, non è stata la voce della sua generazione, certamente ha contribuito a fare in modo che altre voci – voci diverse, finora inascoltate e inclusive per davvero – venissero ascoltate per la prima volta, come sottolinea Jonathan Bernstein sul Guardian. Se penso a una scena di Girls che in qualche modo mi lega allo show e che credo lo dipinga bene anche a distanza di sei stagioni, è quella che conclude il terzo episodio della prima stagione, “All adventurous women do”, quando Hannah balla su “Dancing On My Own” di Robyn dopo aver realizzato – finalmente – che il suo ex era gay. All’inizio della scena, Hannah sceglie le parole per esprimere su Twitter quello che sta provando e cancella più volte la frase, prima di pubblicarne una che può capire solo lei e che di certo non contribuirà ad aumentare il suo seguito, che in quel momento ammonta a un poco onorevole ventisei follower. Eppure, sente il bisogno di scrivere qualcosa: in quei pochi secondi di ansia social è concentrato lo show che meglio ha parlato negli ultimi anni di scrittura, freelance e aspiranti letterati-giornalisti, e ansia del futuro in generale, senza mai darci una risposta rassicurante, mentre il ballo finale con la pure odiosa Marnie (Allison Williams) ci regala uno di quei momenti a metà fra la disperazione e l’assurdità che molte amiche condividono, magari senza colonna sonora. (Silvia Schirinzi)
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