NEWS - Netflix contro tutti (e bye-bye Italia!). Ha portato la Tv sui tablet e i pc di 44 milioni di persone ma nel nostro Paese probabilmente non arriverà. Storia e ragioni per le quali in Italia (ma anche in Francia) rimane un miraggio
Articolo di Anna Momigliano per "Rivista Studio"
«Non puoi semplicemente chiedere ai consumatori cosa vogliono e poi
provare a darglielo. Non appena l’avrai costruito, loro vorranno
qualcosa di nuovo» è una delle citazioni più note, usate e abusate di
Steve Jobs. Jobs aveva la fama di essere un game changer, uno che ha
cambiato le regole del gioco, del come si produce e come si consuma, uno
che sapeva dare al pubblico quello che il pubblico ancora non sapeva di
desiderare, uno che, a volere esagerare, ha cambiato la nostra
interfaccia con la realtà prima che ce ne accorgessimo.
Questa però è la storia di un game changer contemporaneo, che sta
cambiando le regole del gioco, del come si produce e come si consuma, in
un’era in cui il pubblico e la concorrenza sono avvezzi a cogliere i
cambiamenti, nel mercato e in se stessi, mentre essi sono ancora in
atto. Questa è la storia di una Tv globale, di un gigante di Internet
che ha cambiato il significato della parola “televisione”, come la
televisione è guardata, scritta e prodotta, e che ultimamente sta
cercando di cambiare anche le regole del web. Ma, soprattutto, questa è
la storia di come questo colosso ha cambiato le abitudini di una una
fetta della popolazione mondiale dando al pubblico quello che il
pubblico ancora non sapeva di desiderare, e di come un’altra fetta del
pubblico abbia cominciato a desiderare qualcosa di simile prima che quel
colosso fosse in grado di dargliela. È la storia di come Netflix ha
cambiato il mercato televisivo italiano senza mai arrivare in Italia e
del perché non è poi così detto che ci arrivi.
Ci sono voluti vent’anni perché Netflix diventasse Netflix. Reed
Hastings, un ingegnere elettronico laureato a Stanford, ha fondato la
compagnia nel 1997 grazie al capitale ottenuto dalla vendita della sua
ditta Pure Software, specializzata in debugging, a Rational Software,
che oggi fa parte di Ibm. La società affittava Dvd, prevalentemente film
e serie Tv, per posta: potevano essere ordinati via telefono oppure
online, secondo il modello “pay per rent” di Blockbuster oppure
attraverso un abbonamento mensile. Nel 2000 Blockbuster lanciò
un’offerta d’acquisto per cinquanta milioni di dollari, venti volte
quello che ci aveva investito Hastings. Hastings rifiutò. Blockbuster ha
chiuso definitivamente i battenti nel 2014, sostengono alcuni, anche
per la concorrenza dello streaming.
Netflix ha cominciato a essere ciò che è oggi, ossia la più grande
web Tv del mondo, nel 2007, quando ha deciso di abbandonare
progressivamente la distribuzione dei Dvd a favore dello streaming. È lo
stesso periodo in cui anche altri capiscono le potenzialità di questo
mercato: per esempio Nbc e Fox, che insieme formano Hulu, che offre
contenuti in streaming gratuitamente, ma con interruzioni pubblicitarie
più frequenti rispetto alle Tv tradizionali. Nei primi due anni della
sua nuova vita, Netflix fa il botto: tra il 2007 e il 2009 passa da
avere poco meno di otto milioni di abbonati a venti. Oggi ne ha 44, di
cui quasi undici al di fuori degli Stati Uniti. In principio il suo
catalogo è composto da contenuti vecchi, ma ben presto diventa chiaro
che, se la cosa vuole funzionare, bisogna offrire carne fresca, cose
nuove. Un primo tentativo è l’accordo del 2008 con Starz, Tv via cavo
nota per la qualità dei suoi film e delle sue serie: in Italia è
arrivata Boss, il political drama ambientato a Chicago e
prodotto da Gus Van Sant, andato in onda sulle reti Rai. Nel 2011 la
società annuncia di intendere «perseguire in modo aggressivo» la
creazione di contenuti originali – ed è in questa fase che inizia
l’apporto più epocale di Netflix alla storia della televisione.
David Fincher, il regista di Fight Club e del Curioso Caso di Benjamin Button, stava pensando già da qualche anno di girare un adattamento per il pubblico americano di House of Cards, una miniserie politica della Bbc andata in onda negli anni Ottanta e liberamente ispirata al Macbeth di Shakespeare. Per il protagonista Fincher aveva pensato a Kevin Spacey, che aveva diretto in Seven e con cui aveva collaborato per la produzione di The Social Network.
Dal canto suo, l’attore, due volte premio Oscar, era convinto che
quella fosse la parte per lui: «Il pubblico mi adora quando faccio il
cattivo» Fincher e Spacey propongono la loro idea ad alcuni network
consolidati, a cominciare dall’Hbo. Problema: tutti chiedono un episodio
pilota. I due vorrebbero evitare perché, come Spacey avrebbe spiegato
più tardi, in mente avevano una formula narrativa sofisticata, in cui il
profilo dei personaggi emerge gradualmente nel corso delle puntate: un
singolo episodio non avrebbe reso l’idea.
Gli unici che non chiedono un pilota sono i dirigenti di Netflix: non
ce n’è bisogno, sostengono, perché i dati in loro possesso indicano che
un prodotto del genere ha buone possibilità di successo. La società
dedica molte risorse a un’analisi meticolosa delle abitudini degli
abbonati. Grazie a un complesso algoritmo messo a punto dal
vicepresidente Todd Yellin, che suddivide il catalogo in 76 mila
sottogeneri (si va da “film sugli alieni fine anni Settanta” a
“documentari basati su leggende metropolitane con protagonisti femminili
di età compresa tra gli 8 e i 12 anni”), riesce a ricostruire i gusti, e
dunque ad anticipare i desiderata futuri, dei suoi utenti: un sistema
ideato per offrire suggerimenti quanto più mirati, i famosi “ti potrebbe
interessare anche…”, ma adatto pure a stabilire le probabilità di
successo di uno show in fase di pre-produzione. È quello che Alexis
Madrigal, senior editor per la tecnologia di The Atlantic, ha
definito la «decostruzione di Hollywood con l’ingegneria inversa». È ciò
che permette a Netflix di dare al pubblico quello che il pubblico
ancora non sa di volere.
L’algoritmo dice che un political drama ambientato nella Washington
contemporanea, con un deputato machiavellico animato dallo spirito di
vendetta e interpretato da Kevin Spacey per protagonista, è quello che
la gente vuole: lo show si fa. L’algoritmo aveva ragione: House of Cards
è diventata una delle serie più di successo, discusse e chiacchierate
d’America; nel 2014 riceve quattro nomination ai Golden Globe, tra cui
il premio per la migliore attrice protagonista assegnato a Robin Wright,
risultato senza precedenti per una serie nata per il web. Spacey va in
giro per il mondo a spiegare che House of Cards fa parte di una
nuova età dell’oro della tv, e che questa età dell’oro passa anche da
Internet: «Dieci anni fa nessun agente hollywoodiano mi avrebbe permesso
di recitare per la Tv dopo due Oscar», ha detto al Guardian
International Television Festival di Edimburgo, «figuriamoci per
qualcosa in streaming».
Non è solo che la gente guarda volentieri online cose fatte bene ed è
disposta a pagare per farlo. È che adesso ci sono contenuti, fatti bene
e persino ambiziosi, pensati apposta per essere visti in rete, e magari
distribuiti in modo non lineare. Nel febbraio del 2013, quando esce per
la prima volta House of Cards, Netflix decide di rendere
disponibile tutta la prima stagione, per un totale di tredici episodi,
in contemporanea. È una decisione ispirata dall’osservazione del
comportamento di chi guarda serie in streaming, poco importa se su siti
illegali o a pagamento, e che tende a vedere molti episodi – nei casi
patologici: moltissimi – tutti d’un fiato. Il “binge watching”,
l’abbuffata di puntate, era una pratica diffusa da tempo, nata nell’era
dei cofanetti Dvd e consolidata grazie allo streaming pirata. Con
Netflix però assume una nuova portata, un valore normativo. Nel 2013 un
sondaggio commissionato dalla società rivela che la maggior parte di chi
guarda serie online si “abbuffa” e “binge-watching” sarà candidata
dall’Oxford Dictionary a parola dell’anno (vincerà “selfie”).
Oltre alle prime due stagioni di House of Cards, viene rilasciata “all at once” la quarta stagione di Arrested Development, un altro contenuto originale della web tv, diretto da Ron Howard: sono serie pensate per essere guardate, o meglio guardabili, tutte d’un fiato, lontano dai ritmi che scandivano la serialità dei telefilm tradizionali.
Cambia il modo di scrivere, ed è un processo conscio. «È stato un po’
come scrivere un unico, lungo romanzo», hanno raccontato gli autori di House of Cards: non un romanzo a puntate – formula cui va di moda paragonare certe serie in stile Soprano,
dove la narrazione seriale ricorda alcuni romanzi d’appendice
dell’Ottocento – ma un unico, lungo romanzo, che tutt’al più può essere
diviso in capitoli. Ah, tecnicamente quelli di House of Cards non sono
“episodi”, bensì “capitoli.”
Anche Michael Hurwitz, l’ideatore di Arrested Development,
sostiene che l’avere scritto per lo streaming ha avuto un impatto sul
processo creativo: scrivere quando già si è certi che lo spettatore sarà
in grado di tornare indietro e riguardare (cosa che succede per
l’online, ma anche quando si ha la certezza di andare in Dvd) permette
di inserire dettagli e chicche che rischierebbero di andare perse con la
Tv lineare, ha spiegato Hurwitz in un’intervista a Todd Van Der Werff
pubblicata sul numero 15 di Studio. Sebbene abbia avuto un minore successo rispetto a House of Cards, Arrested Development è un prodotto ancora più innovativo, se non altro dal punto di vista formale: nato come sitcom che faceva il verso a Seinfeld,
è andato in onda sulla Fox per tre stagioni tra il 2003 e il 2006,
prima di essere cancellato per un relativo insuccesso di pubblico. Negli
anni però ha mantenuto una fan base affezionata e agguerritissima,
tanto che si era sparsa la voce della possibile realizzazione di un film
ispirato alla serie. Quando Netflix ha deciso di produrre una quarta
serie a sette anni dalla fine della terza, Howard e Hurwitz hanno visto
l’occasione per sperimentare un formato completamente nuovo: il
risultato sono 15 episodi, ognuno incentrato su un personaggio, tutti
ambientati nello stesso lasso di tempo e che, di conseguenza, possono
essere visti (quasi) in ordine sparso. Senza una distribuzione in stile
Netflix, con tutte le puntate pubblicate in contemporanea, un formato
del genere non avrebbe alcun senso.
Portando film e serie sui tablet e i Pc di milioni di persone,
Netflix ha contribuito a separare il concetto di Tv dall’oggetto-Tv:
nessuno si sognerebbe di dire che non è una televisione, soltanto che
non serve un televisore per vederla. Inoltre, producendo contenuti
originali scritti, diretti e recitati appositamente per lo streaming,
nonché concepiti con dati raccolti grazie ad esso, ha contribuito al
modo in cui la televisione, una certa televisione, nasce.
Netflix però sta cambiando anche il panorama di Internet e forse sta
cambiando anche qualche regola del gioco. Messa giù brutalmente: occupa
un sacco di “spazio”, e ha bisogno di strutture e di norme che gli
consentano di farlo. Secondo una ricerca diffusa nell’autunno del 2013
dalla società canadese Sandvine Inc, è la singola impresa responsabile
del maggiore traffico in rete: da sola, rappresenta ben il 31,6% del
flusso di dati in downstream del Nord America, quasi il doppio di
YouTube – insieme i due fanno la “metà di Internet”.
Permettere a decine di milioni di utenti di guardare film ad alta
risoluzione in streaming non è un affare semplice, e c’è stato un
momento in cui sembrava che Netflix non sarebbe stata in grado di
fornire la qualità del servizio promessa: nei primi due mesi del 2014,
molti abbonati nordamericani hanno cominciato a lamentare problemi, i
video “andavano lenti”, col buffering che si interrompeva sul più bello.
Il 23 febbraio Netflix firma un accordo con Comcast, il maggiore
Internet service provider degli Stati Uniti, per migliorare la qualità
del servizio. Si tratta del primo caso di peering a pagamento nella
storia del web, e poco dopo la Tv annuncia intese analoghe con Verizon e
A&T, altri due grandi Isp.
Secondo alcuni, il 23 febbraio è il giorno in cui la neutralità di
Internet è morta. L’accusa rivolta a Netflix è quella di avere pagato i
tre principali Isp in cambio di un trattamento preferenziale dei suoi
dati. Dal canto suo, Reed Hastings ammette che «non dovrebbe essere
così», ma sostiene di essere stato «ricattato» dai provider. «In realtà
la questione è un po’ più complicata», spiega a Studio Jason Abbruzzese, esperto di tecnologia per Mashable.
«Tecnicamente l’accordo non vìola alcuna regola sulla neutralità di
Internet, almeno così com’è formulata dalla Commissione delle
comunicazioni federali. Gli accordi di peering esistevano già prima ed
erano anzi incoraggiati, ma finora sono sempre stati a titolo gratuito.
Qui invece siamo davanti al primo caso noto di peering a pagamento, e si
può dire che questo violi lo spirito della neutralità della Rete,
perché una compagnia sta pagando un Isp affinché il suo servizio
funzioni meglio». Comunque la si pensi, dice Abbruzzese, «è un
precedente che potrebbe avere delle importanti ramificazioni per il
futuro di Internet».
Da quando Netflix è diventata Netflix, la domanda che si sono posti
un po’ tutti, in quel ristretto e talvolta sovrastimato gruppo di
anglofili iper-connessi che costituisce il pubblico di serie in stile House of Cards, e che di regola s’è già visto House of Cards su
siti pirata, è: quando arriva in Italia? In un primo momento s’era
sparsa la voce di uno sbarco per la primavera del 2014, ne hanno parlato
anche i grandi quotidiani, un rumor insistente al punto da essere quasi
dato per fatto certo. Poi però s’è diffusa un’altra voce, e cioè che
Netflix sarebbe arrivata nel 2015: in molti hanno attribuito il rinvio
alle carenze delle infrastrutture italiane, ché qui da noi le
connessioni sono lente e, come dimostra l’affaire Comcast, fare una Tv
in streaming non è affar semplice.
Ora, prima di discutere il mancato sbarco in Italia, bisogna mettere
in chiaro che la società ufficialmente, non ha mai annunciato nulla.
Contattato da Studio, il portavoce Joris Evers si è limitato a
dichiarare che Netflix non parla con giornalisti di «nazioni dove non
siamo presenti». Fonti vicine a un Internet service provider europeo ci
hanno detto che la compagnia sta cercando un country manager per
l’Italia, ma per il momento dalla sede di Amsterdam. Per il resto si
tratta soltanto di voci, che erano cominciate a circolare quando s’era
venuto a sapere (scoop del Corriere delle Comunicazioni) che il gruppo aveva acquistato i diritti per la fiction Romanzo Criminale: pare, insomma, un interesse per l’Italia ci sia, ma che si proceda con i piedi di piombo.
«Netflix sta dosando le forze in Europa», dice Emilio Pucci,
direttore dell’istituto di ricerca e-Media. «La sensazione è che Netflix
entri in un mercato quando vede un potenziale di crescita immediato o
prossimo», prosegue l’analista, «e il contesto europeo non è facile,
frammentato e ben presidiato dai broadcaster che hanno un peso
considerevole sul mercato dei diritti». La decisione di vendere i
diritti per la trasmissione di House of Cards in Italia a Sky,
che l'ha lanciata sul nuovo canale Atlantic, è indice di cautela e al
contempo d’interesse: un modo per farsi conoscere dal pubblico, ma anche
una presa d’atto che per farsi conoscere, per il momento, è meglio
passare dai media tradizionali.
Non si tratta, dunque, soltanto di un problema di infrastrutture, che
pure c’è. Se Netflix è riuscita a raggiungere alcuni paesi europei –
Norvegia, Finlandia, Danimarca, Olanda, Irlanda e Regno Unito, dove ha
già raggiunto un milione e mezzo di abbonati – e non altri, le ragioni
sono molteplici. Le trattative, per dire, si sono arenate pure in
Francia, pare proprio per questioni di diritti. Le leggi francesi sono
«particolarmente protettive per quanto riguarda il ciclo dei contenuti
video», spiega Liam Boogar, direttore di Rude Baguette,
specializzato nella scena tech francese: affinché un film possa essere
distribuito in Dvd devono passare anni dall’uscita al cinema, e non è
chiaro quanto Netflix fosse disposta ad applicare lo stesso principio
allo streaming. «Questo sistema può piacere o non piacere», commenta
Boogar, «ma alla fine deve essere Netflix ad adattarsi alle leggi
locali, non il contrario».
A complicare il mercato italiano, poi, c’è la concorrenza. Già,
perché tale è stato il polverone alzato da Netflix nel Bel Paese che due
tra i principali player hanno deciso di giocare d’anticipo. Mediaset ha
lanciato Infinity alla fine del 2013, mentre lo scorso marzo è arrivato
sul mercato Sky Online: si tratta in entrambi i casi di web Tv in
abbonamento, che offrono contenuti in formato non lineare, separate dai
pacchetti a pagamento Mediaset e Sky. Un gioco in difesa, certo, ma
anche una difesa che gioca d’anticipo: «Essere arrivati primi per noi è
un vantaggio», dice a Studio Marco Paolini, direttore del
marketing strategico di Mediaset. La situazione che si è creata,
ammette, è quella di un mercato dello streaming probabilmente destinato a
rimanere per un po’ una nicchia, ma già affollato: «Questo, però, è un
problema più per Netflix che per noi».
Tra gli analisti, a dire il vero, c’è chi dubita che l’Italia sia un
contesto adatto allo streaming a pagamento: «Manca la massa critica»,
sostiene Carlo Alberto Carnevale-Maffè, docente di business strategy
alla Sda Bocconi. Il problema, dice, è «tecnologico, economico e
demografico»: gli italiani navigano poco su internet, e ancora meno da
rete fissa; i soldi mancano, e infatti il modello pay Tv è in crisi
anche sul digitale terrestre; ma soprattutto i giovani sono pochi e
vivono coi genitori: «la Tv qui da noi è ancora una cosa che si guarda
tutti insieme, in famiglia, e i ragazzi non hanno il potere contrattuale
di decidere che abbonamenti fare o non fare». Non è che il pubblico per
lo streaming a pagamento non ci sia. È che questo pubblico – composto
da giovani con un lavoro, disponibilità economica, una buona connessione
a Internet e, soprattutto, un’abitazione propria – è troppo piccolo per
rendere l’operazione economicamente redditizia dal punto di vista di
un’azienda come Netflix, sostiene Carnevale-Maffè.
Entrare nel mercato italiano significa aprire una sede, assumere del
personale, adempire a complesse pratiche legali, adattare il modello
business e, non ultimo, l’offerta di contenuti – con traduzione,
doppiaggio, sottotitoli e campagne acquisti: i costi sarebbero tali che
si rischia di non rientrare, specie se il mercato è piccolo e, come
pare, ormai affollato. Per colossi già presenti sul territorio, invece,
il problema della massa critica non si pone, ovvero si pone in termini
minori. I costi gestionali sono scaricati su strutture già esistenti, i
diritti ci sono già, così come il lavoro di traduzione e doppiaggio è
stato già fatto: «Nelle nostre condizioni, per raggiungere il break-even
basta poco», spiega Paolini, il dirigente Mediaset. Infinity, racconta,
è gestita da una squadra di circa quindici persone, in parte già
dipendenti dell’azienda.
L’impressione che ci siamo fatti è che, se Netflix ha rinviato i suoi
progetti in Italia, non è soltanto a causa delle infrastrutture e di un
pubblico forse un po’ più provinciale che altrove, ma anche perché i
suoi potenziali competitor hanno saputo giocare d’anticipo,
accaparrandosi delle fette di un mercato che, proprio a causa della
carenza di infrastrutture e della demografia del pubblico, è già
ristrettissimo di per sé. Vabbé, ma non è con questi prodotti che si può
rubare audience a Netflix, avrà pensato qualche purista dopo avere
visto i cataloghi di Sky Online e Infinity, che specie sul versante
serie hanno un appeal un po’ più conservatore. Tutto vero, si potrebbe
controbattere, ma la questione si ridimensiona se si tiene conto che,
piaccia o no, il pubblico nostrano è più conservatore e,
soprattutto, che la sfida tra Netflix e i due grandi player italiani non
è ad armi pari: Netflix per funzionare ha bisogno di una massa critica
importante, gli altri corrono meno rischi e hanno costi più bassi, per
vincere a Mediaset e Sky basta galleggiare.
Per una volta, a questo round, il game changer s’è fatto battere sul
tempo da avversari molto più tradizionalisti, che hanno saputo correre
ai ripari, offrendo al pubblico ciò che il pubblico non sapeva di
volere… prima che Netflix facesse parlare di sé. Ma si tratta, per
l’appunto, soltanto del primo round. Perché, se è probabile che Infinity
e Sky Online abbiano contribuito a tenere Netflix lontana dall’Italia, è
anche possibile che, se avranno il successo sperato, questi progetti
creino un ambiente meno ostile alla web Tv nel prossimo futuro: «La
situazione in Italia non tarderà ad evolversi», conclude Pucci, il
direttore di e-media, «le iniziative di Mediaset e Sky, per quanto
difensive, faranno da stimolo».
venerdì 16 maggio 2014
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