martedì 27 gennaio 2009

LA VITA E' UNA COSA SERIAL - Big Bang Obama: i telefilm del 2009 verso la nuova frontiera
La domanda è fatalmente fondamentale: quale sarà l'America post-Obama dei telefilm? Dopo un anno di "stagnazione" dovuta in gran parte allo sciopero degli sceneggiatori, il 2009 si profila come l'anno più interessante per le serie tv a "stelle e strisce", di gran lunga lo specchio più fedele delle tendenze socio-culturali di un paese che vive una rivoluzione senza traumi apparenti, anche se sempre di rivuluzione si tratta. Saprà il piccolo schermo - come ha sempre fatto in passato - tastare il polso del cambiamento? O addirittura anticipare il vento? Se non altro la percentuale più bassa degli ultimi 10 anni di afroamericani presenti nel prime-time seriale è destinata a risalire. Così come la recessione segna già i primi tagli: le serie di midseason della ABC come "Castle" con Nathan Fillion e "The Unusuals" con Amber Tamblyn, hanno ridotto la produzione da 13 a 10 episodi. Ma è dal punto di vista dei contenuti che si gioca la posta più alta. Dopo le elezioni del primo Presidente di colore - successivo comunque al David Palmer di "24" - gli scenari a puntate sembrano conoscere una nuova frontiera in cui le serie tv di oggi o dell'altro ieri sembrano roba vecchia da mettere in soffitta. In quest'ottica, la trasposizione sul piccolo schermo di "Crash" di Paul Haggis, sebbene scritta qualche mese fa, appare quantomeno anacronistica: ha ancora senso parlare di razzismo alla vigilia di un New Deal che rischia di far ricordare Bush come il nome di un detersivo vintage? Se lo stesso rischio corrono le prime stagioni di "30 Rock", non è così per le ultime (anche grazie all'imitazione inimitabile di Sarah Palin da parte di Tina Fey, la quale ha donato nuova linfa alla sit-com). "Gossip Girl" potrebbe assurgere a modello per eccellenza di telefilm pre-Barack: dall'alto dei grattacieli di Manhattan si fa fatica a scorgere la nuova America arrancante della crisi economica, più alla moda di qualsiasi griffe all'ultimo grido. Sarah Connors che cita le Torri Gemelle nella puntata pilota di "Terminator" è straniante: combatte per il futuro, fugge dal passato ma si scorda di vivere il presente. Anche "Journeyman", nei suoi flashback vissuti in carne ed ossa, evita accuratamente qualsiasi indizio di attualità (già si barcamena tra due donne sospese tra presente e passato, figuriamoci se si può occupare di un "terzo incomodo" accomodato da poco nella Stanza Ovale!). Ci si chiede se vedremo mai più serie pro-edonismo come "Cashmere Mafia" o "Lipstick Jungle", mentre "Sex and the City" - che si apriva nel telefilm citando Rudolph Giuliani - può sopravvivere al nuovo corso nei suoi aggiornamenti cinematografici (un amante di colore per Carrie farebbe più scalpore di uno stallone afro-americano per Samantha...). Probabile un giro di boa anche per i seguitissimi procedural dagli acronimi altisonanti: l'arrivo di Laurence Fishburne al posto di Petersen-Grissom a "CSI: Scena del crimine" è un indizio...Se Wisteria Lane è forse oggi la strada dove nessun americano si stupirebbe di veder passeggiare Obama, non trova conferma al momento la notizia di una possibile partecipazione delle figlie del neo-presidente all'amata serie "Hannah Montana" (a meno che la White House, già declinata in "casino bianco" da Clinton, non voglia diventare la nuova Disneyland). I veri "Mad Men" non vivono negli anni '60, ma alla Lehman Brothers. Suggerisco sommessamente il titolo per una serie al "brucio" dell'attualità: "Lehman Brothers&Sisters". Basta che non lo facciate sapere a qualche produttore italiano: la intitolerebbe "La Famiglia Lemanno", la ambienterebbe in Corso Como e direbbe che non ha alcun riferimento con la realtà americana. Salvo un Presidente della Repubblica abbronzato interpretato da Carlo Conti. (Articolo di Leo Damerini pubblicato su "Telefilm Magazine" di Gennaio)

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