martedì 22 maggio 2007

L'EDICOLA DI LOU - Stralci e commenti sulle serie tv tratti dai giornali italiani e stranieri

IL DOMENICALE
Impara l'arte e mettila nei telefilm
"Quella brava gente, nel Medioevo, che non sapeva di libri e di scrittura, entrava nel Duomo e leggeva i muri. Era tutta lì la storia dell’uomo. A Siena, ad Assisi, a Monreale, a Piacenza, a Padova, a Firenze e in un pulviscolo d’altri posti in Italia e in Europa. Nelle grandi città o nelle e­dicole di campagna. Affrescata da grandi maestri o da alacri artigiani. Lungo navate interminabili o su pareti intonacate alla buona. Era ovunque quel tripudio di personaggi e di azioni, e ovunque ripeteva lo stesso messaggio: così si fa, così non si fa. Il buon samaritano e la moglie di Lot. La cacciata dal paradiso e la saggezza di Salomone. La traversata del Mar Rosso e il diluvio universale. Generazioni di uomini e di donne hanno imparato così, per consonanza percettiva, come va la vita. Era una cultura che procedeva per immagini, visive o narrative. Se Giotto incarna l’artista che descrive per l’occhio, Esopo e Fedro sono capostipiti di coloro che raccolgono o rimodellano tradizioni per l’orecchio: un riscontro diffuso per via orale e solo dopo, per pochi e per posteri, fissato come exempla scritti nei libri. Un genere vigoroso che attraverso La Fontaine, i Grimm, Andersen e tanti altri giunge fino a noi. Le fiabe tuttora popolano l’infanzia dei nostri figli. In tutto questo c’è, indubbiamente, una dimensione religiosa. Ma non è preponderante, né la sola. Il lupo descritto da Fedro, che al fiume tiranneggia l’agnello, non è meno esemplare del figliol prodigo. In entrambi i casi si tratta di un “catechismo”. Il termine deriva dal greco katéchein, “istruire a viva voce”, che a sua volta rinvia al verbo échein, “risuonare”: l’eco sprigionata da tutti questi episodi, storici o fittizi ma comunque raffigurati, raccontati e proposti, esprime un atteggiamento culturale preciso. Non per nulla, a sua volta, la parola “e­sempio” deriva dal latino ex- e­me­re, cioè “comprare, acquistare”. Da millenni basiamo la nostra cultura su un processo consapevole di decisioni: quali modelli definire e rendere durevoli, come raffigurarli, in che maniera sottoporli alla vista di tutti. Questa è un’operazione culturale, dicevo, ma non necessariamente ideologica, per la semplice ragione che non si tratta d’una cernita tendenziosa, bensì della naturale corrispondenza col comune sentire. Tutti convengono che il comportamento del “ricco epulone” evangelico – che crapula e non dà niente al povero – è riprovevole. Questi racconti toccano corde universali della natura umana e inducono logici comportamenti. Certo, poi il Novecento ci ha avvezzati alla disinformazione e alla manipolazione, ci ha fatto scoprire che i fatti possono essere mistificati e le fotografie ritoccate. Figurarsi il Due­mila con l’era digitale, in cui tutto ma proprio tutto è fiction. Però, sotto, rimane una tradizione narrativa dove il contatto tra la testa, il cuore e i sensi è ancora diretto e saldo, e per questa ragione concorda con una tradizione d’immagini e racconti avvertiti come propri. E – va notato come un passaggio tanto evidente quanto essenziale – assai più apprezzabili, coinvolgenti e convincenti di quanto non lo siano mai state l’istruzione e l’educazione. Appunto l’adagio popolare recita che “il miglior maestro è l’esempio”.

L’era dei supporti tecnologici
Poi sono arrivati i libri a diffusione popolare, il cinema, la televisione. Anche Emma Bovary, Anna Karenina, Davide Copperfield e Phileas Fogg sono exempla, così come Rossella O’Hara, Indiana Jones, il Jack e la Rose di Titanic. Obbediscono non a propositi moralistici bensì morali, ovvero illustrano come possono andare e di fatto vanno le cose. Danno una lettura fra le tante possibili, non sempre la migliore in teoria. Sarebbe stato meglio non commettere adulterio, eppure Emma, Anna, Rose ci convincono, esistenzialmente, che certi sentimenti ed emozioni portano su strade che tutti noi potremmo imboccare o veder imboccare ad altri. Mostrano l’intimità con sapienza narrativa e plausibilità psicologica. Offrono personaggi forti, nei quali o ci immedesimiamo, oppure almeno li contempliamo volentieri. Mettono in scena, nelle pagine di un romanzo o sullo schermo, l’amore, l’eroismo, la possibilità di scelta, la passione, la grettezza, l’amicizia, l’invidia, l’errore e altri simili risvolti dell’animo umano. Oggi sembra che questa funzione culturale sociale l’abbiano ereditata le fiction. Che sono un anello in più nella catena evolutiva della comunicazione che dall’affresco e tramite il libro ha portato fino alla Settima Arte. La fiction di cui parlo è quella televisiva, per qualità e budget non inferiore al cinema (e perciò quasi sempre americana), serializzata su lunghe o lunghissime scadenze: di 'Lost', per esempio, abbiamo saputo che terminerà nel 2010; 'E.R. Medici in prima linea' conta già tredici stagioni e non accenna a smettere. Se è concepita e realizzata al meglio, come spesso accade, la fiction possiede alcune caratteristiche che la portano oltre il cinema. Il succedersi degli episodi fa sì che i personaggi si approfondiscano e si precisino: impariamo ad amarli davvero perché lungo il tempo li vediamo con pregi e difetti, con vittorie e sconfitte. Sono come noi e con noi e assai più vicini a noi degli eroi cinematografici. Questi nostri eroi quotidiani – fittizi ma plausibili, costruiti con finissimo cesello di sceneggiatura – s’imbattono spesso in momenti assolutamente topici dell’esistenza, gli stessi che potrebbero accadere – accadono – a tutti: la nascita, la morte, il dolore, il piacere, l’innamoramento, il diso­no­re, il tradimento. E in problemi umani e sociali altrettanto crudi: come – cito da episodi recenti di fiction famose – la morte violenta di un compagno di lavoro (Ncis), la scelta etica se far vivere o morire un malato (Dr. House, E.R., Lost), l’arresto immotivato di un parente per motivi legati al terrorismo (The Practice), la tortura di un prigioniero (Lost), l’eutanasia attiva (E.R., Hou­­se), la pedofilia “motivata” e la clonazione (The Practice), le sevizie contro deboli e innocenti (Senza traccia, CSI, Law & Order), la pratica della medicina per scopi mercenari e illeciti (Law & Order, Nip/Tuck), la corruzione “a fin di bene” (The Shield), i rapporti occasionali, sadici, multisessuali (Nip/ Tuck, Sex & The City, Desperate Hou­se­wi­ves), la vita e la morte e la guerra nelle zone indigenti del mondo (E.R.), gli scontri generazionali, sessuali, razziali (House, Law & Or­der, The Practice).

Il fattore umano
Per rispondere a interrogativi più grandi di noi e di loro, molte di queste fiction scelgono, con tutta evidenza, la via pragmatica. Ovvero: proprio perché a dover fronteggiare quelle situazioni sono personaggi amati, alla fin fine qualsiasi decisione prenderanno, perfino la non decisione, potrà essere giustificata, se non condivisa, dagli spettatori. L’enorme forza di questa prospettiva di narrazione fa sì, tuttavia, che essa possa costituire un buon veicolo per suggerire scelte azzardate su tematiche scottanti. Su questa strada infatti alcune fiction si spingono abbastanza spesso. Ma sempre con cautela, com’è testimoniato dalla presenza, in episodi successivi, di scelte opposte davanti a situazioni analoghe: lo si nota per esempio in 'E.R.', che nel frenetico intrecciarsi di personaggi e situazioni riesce facilmente a mantenere un profilo variegato senza pagare pegno alle contraddizioni. E in 'Dr. House', dove le scelte problematiche possono esser fatte rientrare nella fisionomia problematica del protagonista. Qualche lettore starà chiedendosi se questo sia un problema culturale, etico. La mia risposta è ambivalente. Molte fiction sono politicamente e culturalmente “fredde”: si preoccupano soprattutto di non scontentare il loro pubblico. E, dunque, malgrado scelte formali magari clamorose, sostanzialmente rimangono ancorate a una idea di uomo il più possibile condivisa. Che mentre certe volte consente eccessi e prese di posizione ardite, al tempo stesso li attenua con la propria “umanità”. Può accadere, però, e accade, che certe fiction siano ideologicamente condizionate. Sì, esistono gruppi di pressione, politico-culturali (ma anche industriali), che sovvenzionano e pilotano narrazioni cinematografiche e televisive; sarebbe strano il contrario. Tuttavia è ancor più frequente e forte il condizionamento “ambientale”: com’è stato dimostrato anni fa (riprendo considerazioni argomentate negli Usa da Martha Nuss­­baum e in Italia da Armando Fumagalli), ha del clamoroso verificare quanto poco ciò che la maggior parte di produttori, registi, sceneggiatori e attori di Hollywood pensano sull’amore, sulla famiglia e su altre dimensioni del vivere comune coincida con ciò che su questi temi opina la maggior parte della popolazione americana.
Alla fin fine lo sceneggiatore può piegare qualsiasi storia alle sue personali convinzioni. Esattamente come il pittore, il narratore, il romanziere. In questo c’è libertà e potenza creativa. Ma il giudizio dello spettatore, come sempre, verterà sulla qualità del “fattore umano”, oltre le incastellature tendenziose che non mancano. Come non mancano i vicoli ciechi, gli espedienti fumosi, le cadute di tono (dispiace addebitare proprio all’amato 'Lost' questi tre difetti).Se a tutti noi, da spiriti liberi, viene chiesto di contribuire a rendere il mondo più umano e migliore tramite le parole e l’esempio, c’è da augurarsi che sempre più fiction siano molto umane. E che non contrabbandino merce avariata mascherandola con belle forme. Giotto ed Esopo non l’hanno mai voluto fare".
(Giuseppe Romano, 19.05.2007)

1 commento:

Anonimo ha detto...

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