NEWS/L'EDICOLA DI LOU - I giovani fuggono dalla tv tradizionale per le serie tv (ma ancora nessuno o quasi mette sotto accusa l'arcaico Auditel che premia gli anziani, per la gioia dei pubblicitari...). Gli esempi (da seguire) negli altri Paesi.
Articolo di Luca Raimondo su "Il Fatto Quotidiano"
"Spose a caccia dell’abito perfetto, grandi obesi che perdono 100 chili
grazie a un severo, ma amorevole personal trainer e ancora cucine da
incubo, hotel allo sfascio, gatti indemoniati. Poi si cambia canale e
gli avventurieri del sofà possono essere proiettati tra combattimenti,
viaggi estremi, macchine superveloci, sfide al limite del possibile. E
non dimentichiamo i masterchef grandi e piccini, i boss delle torte e,
quando l’ora si fa tarda, anche le gole profondissime e il sesso da
pronto soccorso. È la televisione dell’eterno cazzeggio, in cui prima o poi tutti
s’imbattono per non abbandonarla più. Ma canali come Real Time e DMax,
visibili sia sul satellite che sul digitale terrestre, sono la punta
dell’iceberg di un nuovo modo di vedere la tv che sta progressivamente
mandando in pensione i canali generalisti, ormai territorio protetto per
talk show politici sempre più noiosi e autoreferenziali, che
interessano un pubblico sempre più anziano e meno numeroso.
Intanto, chi ha meno di 30 anni – ammesso che la accenda: di sicuro
preferisce fare tutto da telefono o tablet – la tv la usa nella sua
versione “smart” (collegata a internet, per vedere film e serie rubate
dal web e i video preferiti su YouTube) che, come ha spiegato Marco
Consoli sull’Espresso, ormai vanta nel mondo vere e proprie star in
grado di guadagnare milioni, nate e cresciute sul portale di video
comprato da Google nel 2006 per 1,65 miliardi di dollari. Si tratta di
artisti, comici, ma anche cuochi o esperti di make-up; il trucco è avere
un’idea originale e sperare che la rete la accolga. Più facile a dirsi
che a farsi. È un nuovo artigianato che può
ricordare la nascita delle radio libere negli anni ’70. Quando, con
scarsissimi mezzi, migliaia di realtà in tutto il paese iniziavano a
trasmettere in modo improvvisato, se vogliamo anche dilettantesco, ma
finendo per rompere il monopolio pubblico e cambiare per sempre il modo
in cui ancora oggi ascoltiamo la radio.
E infatti può succedere che dal video amatoriale di YouTube si arrivi al
cast de Le Iene, come è accaduto a Frank Matano, diventato una star del
web pubblicando i suoi scherzi telefonici, o Willwoosh, al secolo
Guglielmo Scilla, che dagli sketch autoprodotti è passato alla radio, al
cinema e ha persino pubblicato un libro.
Anche se si può solo stimare un guadagno minimo e massimo che va da
uno a 15 dollari ogni mille visualizzazioni, quelli che nel mondo sono
in grado di fare guadagni a sei cifre sono ormai migliaia. Molto meno in
Italia, dove somme di un certo livello sono raggiunte da non più di
cinque o sei persone. Il mercato però è in vertiginosa ascesa.
Sapere
che la raccolta pubblicitaria di YouTube nel 2013 ha generato 5,6
miliardi di dollari, il 51 per cento in più rispetto al 2012, deve far
rabbrividire Mediaset e Rai: il gruppo berlusconiano nel semestre
gennaio-giugno ha chiuso con una raccolta di 1,1 miliardi di euro (-4
per cento rispetto al 2013), mentre il servizio pubblico è sceso in due
anni di circa il 30 (da 964 a 682 milioni di euro).
È l’ennesimo segnale che il nostro paese, soprattutto le giovani
generazioni, abbandonano il piccolo schermo e parcellizzano l’ascolto in
mille rivoli fatti di video postati sui social network, inoltrati su
whatsapp, consigliati ad amici e parenti. Un passaparola che oggi si
chiama “virale” e che concede alla tv tradizionale solo lo spazio per la
clip della lite tra politici o la gaffe del conduttore, il giorno dopo.
Una tendenza che mette ulteriormente in crisi la massa insostenibile di
canali visibili in chiaro sul digitale terrestre.
La nuova tecnologia ha infatti consentito a tutti gli operatori di
poter ampliare l’offerta, ma il risultato sono share da prefisso
telefonico che hanno ridotto drasticamente la redditività ; ad esempio –
malgrado gli imponenti investimenti degli ultimi mesi – lo 0,57 per
cento con un ascolto medio di poco superiore alle 60mila persone di Rai
news24, certificato da un rapporto del Marketing di viale Mazzini su
ascolto e gradimento dei canali del servizio pubblico nel primo semestre
2014.
Rai news vale esattamente come Rai Gulp, la
metà di Rai Yoyo ed è sempre in coda alla classifica dei canali
digitali della Rai, dietro Rai4, Rai Movie, Rai Premium. Fa peggio solo
Rai Storia allo 0,18 per cento e Rai Scuola allo 0,01 con 908
telespettatori. Non sono numeri molto diversi quelli dei tanti canali
extra di Mediaset: ai tre storici si sono aggiunti La5, Italia2, Iris,
Boing, Top Crime e anche l’allnews Tgcom24 (più quelli di Mediaset
Premium, ma il digitale pay meriterebbe da solo un discorso a parte).
Tutti navigano tra lo zero virgola o superano di poco l’1 per cento.
Tante piccole gocce che perdono da un rubinetto principale, senza
portare nulla in termini di ascolto, ma che tutte insieme rubano almeno
un 10 per cento alle sorelle maggiori. Lo affermava lo sorso 9 luglio ,
durante un’audizione alla commissione Telecomunicazioni della Camera,
Eric Gerritsen, vicepresidente esecutivo di Sky Italia: “Se le tv non
fanno redditività è chiaro che c’è un problema. Quando
c’è troppa offerta di frequenze vuol dire che c’è troppo stock di
pubblicità e che il prezzo medio di quest’ultima cala troppo”. La
soluzione? “Ridurre l’offerta, riportarla a un livello in linea con la
media europea”. Infatti, la massa di canali free è un suicidio che non
ha paragoni nel resto del continente.
Paesi come Francia, Inghilterra o Germania, si sono guardati bene
dall’aumentare a dismisura l’offerta in chiaro. Chi dovesse limitarsi
alle tv non a pagamento a Parigi, Londra o Berlino, potrebbe scegliere
al massimo tra una quindicina di canali nazionali (nel caso della
Germania hanno rilevanza anche le tv dei Laender, ma quello è sul serio
un paese federalista).
Persino negli Stati Uniti
esistono pochi network nazionali, moltissime consociate locali e il
gigantesco mondo delle pay-tv via cavo e satellite. Ma è proprio da
oltreoceano che arriva la grande lezione su come far sopravvivere la
cara vecchia televisione. È di pochi giorni fa la notizia dell’acquisto
da parte del colosso telefonico At&T del numero uno della
televisione satellitare Direct Tv per la cifra monstre di 48,5 miliardi
di dollari.
Il via libera dell’antitrust USA è il segnale che aspettavano altri
grandi gruppi pronti alla fusione, a cominciare da Comcast e Time
Warner. Il mondo delle telecomunicazioni e quello della comunicazione e
dell’intrattenimento sono sempre più legati a filo doppio, perché i
sistemi con cui gli utenti si informano e seguono i loro programmi
preferiti sono e saranno sempre più connessi.
Ma
in questa marea di cifre, percentuali, milioni e miliardi di dollari o
di euro, i contenuti valgono ancora qualcosa? La risposta è sì. E lo
dimostra ancora una volta la forza che su tutti i media, vecchi e nuovi,
stanno avendo le serie tv. I premi Emmy, gli oscar della televisione
assegnati la settimana scorsa, sono stati un evento a cui hanno
assistito in America oltre 15 milioni di spettatori, malgrado la partita
di football in contemporanea su un altro canale.
Le star di Breaking Bad, di Sherlock, di Big Bang Theory o True
Detective, sono delle icone mondiali grazie a internet. In molte parti
del globo le serie sono già sui computer di milioni di fan i quali non
aspettano che sia la tv del loro paese a mandarle in onda.
Non
a caso i produttori di House of Cards, grande sconfitto di questa
edizione, non hanno perso tempo e il giorno dopo hanno postato su
YouTube un divertente video di venti secondi con il gelido assistente di
Frank Underwood/Kevin Spacey che chiama al telefono il suo contatto per
sapere come mai “l’accordo” per farli vincere non si sia concretizzato.
Si perde la gara tradizionale, ma si vince quella della comunicazione.
E sarà pure vero, come è stato scritto, che è in questa edizione degli
Emmy è stata bocciata Netflix, la web tv che produce House of Cards,
come a dire che il mondo della tv tradizionale cerca di frenare
l’avanzata di chi offre contenuti su piattaforme multimediali, ma a
portarsi a casa il premio sono state serie straordinariamente
innovative, nello stile e nelle tematiche.
Con Breaking Bad vince la storia di un uomo onesto e rispettato che
sceglie la strada della produzione e dello spaccio di droga; con Modern
Family la descrizione, in tutte le sue contraddizioni, della famiglia
allargata sempre più tipica della società occidentale contemporanea.
Grazie alle serie, la tv non muore ma si trasforma; se dieci anni fa i
ragazzi parlavano degli ospiti della casa del Grande Fratello, oggi
discutono del “Trono di Spade”, “The Walking Dead” e, finalmente, di un
prodotto italiano straordinario come “Gomorra”.
Perché la modernità porterà con sé programmi su malattie imbarazzanti e
reality sui parrucchieri, ma anche grandi racconti che descrivono i
mutamenti della nostra epoca meglio delle inutili chiacchiere di mille
talk show. E solo quando la nostra “vecchia” tv ne capirà lo spessore,
potrà vivere senza timore la concorrenza dei nuovi media e i profitti
multimiliardari di You-Tube".
mercoledì 3 settembre 2014
Etichette:
Breaking Bad,
Game of Thrones,
Gomorra,
Guglielmo Scilla,
House of Cards,
Kevin Spacey,
L'EDICOLA DI LOU,
Mediaset,
network,
NEWS,
Sherlock,
Sky,
The Big Bang Theory,
The Walking Dead,
True Detective
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento