martedì 5 marzo 2019

L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri

CORRIERE DELLA SERA
Luke Perry, addio al Kurt Cobain delle serie tv
La t-shirt bianca e i jeans stinti, la moto nera e lo sguardo triste, la solitudine del ragazzo ricco costretto a vivere lontano dai genitori che non lo amavano: con Luke Perry, protagonista di «Beverly Hills 90210», morto lunedì a Los Angeles per le conseguenze di un ictus a soli 52 anni (mercoledì scorso il malore che era parso subito gravissimo, il coma), non se ne va soltanto uno degli attori televisivi più importanti dell’ultimo trentennio, ma scompare anche un simbolo degli anni ’90. Simbolo della confusione adolescenziale, della solitudine. Il suo coetaneo Kurt Cobain in quegli anni fu il maledetto del grunge, il ribelle con la chitarra elettrica che vedeva il successo come la prova della sua ipocrisia. Luke Perry, idolo pop quanto Cobain era l’eroe del rock, incarnava l’inquietudine e la confusione giovanile, Dylan con problemi d’alcolismo innamorato della dolce Brenda arrivata dalla provincia, sorella del suo migliore amico, il sensibile Brandon. «Beverly Hills 90210» apparve nel 1990 con successo globale (20 milioni di spettatori ad ogni puntata soltanto negli Usa) e l’ultima puntata è stata trasmessa nel 2000: raccontava dei fratelli Brandon e Brenda arrivati nella terra dei ricchi californiani dal natio Minnesota, ma il protagonista era il Dylan McKay di Luke PerryRibelle nella fiction e fuori, fu il primo (1995) a lasciare il serial all’apice del successo per provarci col cinema: andò male (lo ricordiamo in Vacanze di Natale 95 con Cristiana Capotondi che gli dice «quanto sei bbbono» in discoteca) e così tornò a «Beverly Hills 90210» tre anni più tardi, ammettendo con franchezza che lo faceva per i soldi. Ma per soldi non accettò almeno la malconsigliata «reunion» del 2008 con gli ex colleghi un po’ spaesati, lasciando il ricordo del Dylan bello e dannato all’esercito di fan alle quali Capotondi aveva dato voce stentorea. Accolta la fama con lo schietto realismo da figlio d’un metalmeccanico dell’Ohio, era arrivato al successo dopo una serie impressionanti di «no» incassati ai casting (inizialmente doveva interpretare il personaggio secondario di Steve ma l’avevano scartato anche quella volta, vinse il ruolo di Dylan contro ogni aspettativa non soltanto sua, ma anche del suo agente). Il dopo-«90210» fu poco stimolante, in quest’ultimo ventennio della sua vita e della sua carriera: comparsate in serial di successo come «Criminal Minds», «Law & Order: Special Victims Unit» e «Will & Grace», doppiaggi a lodevole tasso di autoironia ne «I Simpson» e ne «I Griffin» nei panni di se stesso, icona anni Novanta fuori tempo massimo. Ci provò con il teatro di lusso, «Rocky Horror Show» a Broadway e «Harry ti presento Sally» a Londra, sempre a caccia di quel successo che era stato suo e che gli era sfuggito dalle mani in un istante, spente le luci sul set dell’ultima puntata di «Beverly Hills». Il mondo l’ha rivisto in «Riverdale» (su Sky), serial nel quale ormai faceva una parte da comprimario, il papà, con le rughe in vista lodevolmente sottratte al Botox e lo sguardo triste di una volta. E il pensiero a quegli anni lontani, quando era il più bello e il più famoso di tutti. (Matteo Persivale)

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