L'EDICOLA DI LOU - Stralci, cover e commenti sui telefilm dai media italiani e stranieri
RIVISTA STUDIO
"Arrested Development", il nuovo "Fratelli Karamazov"
C’era una volta un padre snaturato, uno sgradevole tizio di mezza età
completamente in balìa delle proprie pulsioni. E c’erano una volta i
suoi tre figli maschi, ormai adulti: il primogenito, uno scroccone mezzo
sociopatico,
somiglia molto al padre, ma a differenza di lui possiede qualcosa che
ricorda una coscienza; il secondo è “quello sveglio”, uno che forse
avrebbe anche avuto una vita soddisfacente, se solo non gli fosse
toccata la famiglia più disfunzionale della nazione; il più giovane,
beh, è praticamente un santo.
Probabilmente questa storia l’avete già sentita.
Per esempio l’avete letta nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. O, più recentemente, l’avete guardata in Arrested Development,
la surreale, e contemporaneamente iper-realalistica, sit-com diretta e
narrata da Ron Howard, andata in onda sulla Fox americana tra il 2003 e
il 2006, mentre da noi era stata trasmessa tra il 2004 e il 2009 dalle
reti Mediaset col titolo Ti presento i miei.
Arrested Development ha entusiasmato la critica – qualcuno l’ha definita «uno scorcio di perfezione comica sottovalutata», paragonandola a Seinfeld e Curb Your Enthusiasm – nonché un gruppo di fan ridotto nei numeri, ma affezionatissimo: cancellata dopo tre stagioni per mancanza di pubblico, negli anni successivi è stata oggetto di conversazione,
alimentata da vari rumour su un prossimo ritorno in TV o di una
trasposizione cinematografica. Infine, è risorta proprio quest’anno grazie a Netflix, il principale portale americano di streaming a pagamento. (nota: a proposito, stay tuned, che sul prossimo numero di Studio abbiamo una bella sorpresa)
Mette in scena le disavventure dei Bluth, decaduta dinastia di
palazzinari californiani. Travolta da una serie di scandali finanziari –
non ultima, l’accusa di avere costruito un palazzo di Saddam Hussain,
peraltro con gli standard di una catapecchia – la famiglia allargata si
ritrova a vivere nel mock-up di una villetta, parte di un loro progetto
per un quartiere residenziale mai costruito. Il titolo, Arrested Development, si presta a molte interpretazioni.
I Bluth, si diceva, vivono in una casa finta in mezzo al nulla. Per muoversi utilizzano un furgoncino-con-le-scale
(ma il termine tecnico, mi fanno notare, è “scala autocarrata”), che un
tempo serviva per scendere dal jet privato, e che ora è soltanto un
indecoroso promemoria del benessere passato. È una famiglia al collasso
economico, composta da individui che erano al collasso personale già da
un bel po’: un prestigiatore fallito, uno psichiatra cripto-gay, la di
lui moglie, eccetera. Ah, poi c’è la mia preferita, la matriarca, una
Crudelia Demon sempre inquadrata con un Martini in mano, che continua
assumere farmaci per la depressione post-partum, anche se il suo
ultimogenito ha 32 anni: se non avete mai visto lo show, questa serie di
GIF su Lucille Bluth raccolte da BuzzFeed riassumono bene il personaggio.
Specie nelle puntate iniziali, la serie si regge sullo schema ben noto dell’unico sano di mente in una gabbia di matti: è Michael, il figlio di mezzo, cui è riferito lo slogan con cui inizia ogni puntata, «And now the story of a wealthy family who lost everything, and the one son who had no choice but to keep them all together». Eppure, secondo qualcuno, è una trasposizione contemporanea dei Fratelli Karamazov.
La tesi è stata esposta da Hellen Rittelmeyer su First Things,
una testata religiosa relativamente di nicchia. Ma è finita per creare
un discreto chiacchiericcio sul web, tanto che poi l’articolo è stato ripubblicato da Salon. Rittelmeyer arriva a trovare per ogni singolo personaggio di Arrested Development un corrispettivo nel capolavoro di Dostoevskij. Ne riportiamo alcuni.
Michael Bluth è Ivan Fëdorovic. E questo nonostante, come accennato
prima, sia il protagonista della serie (il suo ruolo è decisamente
dominante nella prima stagione e resta tale, nonostante lo show col
tempo assuma un tono sempre più corale). È il secondogenito, è “quello
sveglio” e probabilmente anche quello più dotato di buon senso. Ma,
soprattutto, è scisso tra il suo cinismo raziocinante (in parte
giustificato dall’essere circondato da sociopatici) e il desiderio
d’amore — Ivan aspira a quello di Dio, Michael insegue invano l’affetto
dei suoi familiari. Del resto, sostiene Rittelmeyer, se i Fratelli
Karamazov fossero stati scritti in questo secolo, è assai probabile che
il protagonista (“il nostro eroe”) sarebbe Ivan, e non Aleksej.
Buster Bluth è Aleksej Fëdorovic, sostiene Rittelmeyer. E qui il
paragone a prima vista è più ostico. Perché, beh, il più giovane dei
fratelli Bluth è un idiota. O, meglio, uno sfigato piagnone, attaccato
alle gonnelle di mammà (peraltro, una madre che non lo ama, ma che con
lui intrattiene una relazione possessivo-edipica alquanto
raccapricciante) ben oltre i 30 anni. Un uomo che riesce a “tradire” la
genitrice/dominatrix soltanto con una donna di 40 anni più anziana, e
per giunta ominima, “l’altra Lucille” (interpretata da una strepitosa
Lisa Minelli).
Eppure, fa notare Rittelmeyer, il terzogenito dei Bluth e
il terzogenito dei Karamazov hanno in comune un tratto non
indifferente, e assai funzionale
Gob Bluth è Dimitrij Fëdorovic. È egoista, impulsivo, a tratti vile,
maramaldo, e volitivo. Come il primogenito dei Karamazov, anche il più
anziano dei Fratelli Bluth è tra tutti quello che più somiglia al padre.
E, incidentalmente, anche quello che col padre ha un rapporto più
conflittuale. In più è un fallito – un prestigiatore mancato, nel caso
di Gob – sempre al verde. “You’re hopelessly hopless” è la frase che meglio descrive il personaggio, faceva notare il New Yorker.
Ma, proprio come Dimitrij, Gob aspira ad essere qualcuno di migliore,
ed è persino capace di piccoli gesti di nobiltà. Più di un
approfittatore, Gob è un wannabe. E in questo suo desiderio costante di
essere qualcuno di diverso da ciò che è (essere un mago, e non un
prestigiatore fallito; essere un lestofante vero, come lo è il padre e
come non riesce ad esserlo lui; oppure essere un individuo rispettabile)
c’è qualcosa che lo rende incredibilmente simpatico.
George Senior Bluth è Fëdor Pavlovic. «Era un sentimentale. Era cattivo e sentimentale»
Il suo fratello gemello, Oscar Bluth è Padre Zosima. Una figura
paterna alternativa, e per lo più positiva, specie per Buster/Alekseij.
Kitty, la segretaria della Bluth Company, è Katerina Ivanovna.
Questo, sostiene Rittelmeyer, in quanto figura femminile incline alla
scenata che dimostra un interesse romantico in due membri della famiglia
Bluth/Karamazov (per la stassa ragione, però, trovo più azzeccato il
paragone con Grušenka).
Annyong è Smerdjakov. Annyong è un ragazzino coreano adottato per
sfizio da Lucille Bluth, e poi abbandonato a se stesso, con uno status
all’interno della famiglia che oscilla tra quello di un giocattolino
esotico, quello di un servo e quello di un soprammobile. Dal momento che
non parla inglese al punto di non potere rispondere alla domanda “come
ti chiami?”, e che nessuno ha voglia di prendersi il disturbo di leggere
i suoi documenti, viene soprannominato “Annyong”, che vuol dire “ciao”
in Coreano. Annyong è un fratello Bluth e contemporaneamente non lo è.
Annyong non ha un nome, ma soltanto un nomignolo carico di disprezzo.
«Una volta che hai capito che Annyong è Smerdjakov», conclude Rittelmeyer, «ogni cosa diventa chiara». (Anna Momigliano)
giovedì 8 agosto 2013
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