Articolo di Deborah Ameri su "La Repubblica"
La fucina della tv che verrà si chiama The shu: una stanzetta 
insonorizzata, nascosta da una porta blindata. Qui si testano gli 
apparecchi televisivi che non sono ancora sul mercato, per verificarne 
la purezza del suono. Ce ne sono una trentina in attesa del proprio 
turno. Li vedremo nei negozi tra uno o due anni. Ma saranno ben diversi 
dal piccolo schermo come lo conosciamo oggi. Perché la rivoluzione 
inizia qui, al secondo piano di una palazzina color pastello nel centro 
della sonnacchiosa Los Gatos, cuore della Silicon Valley. È il quartiere generale di Netflix, gigante 
dello streaming online che, dopo essere sbarcato in 50 Paesi, arriva in 
Italia a ottobre. Ha cambiato così radicalmente il gusto dei 
teledipendenti che le smart tv di nuova generazione cominciano ad avere 
Netflix incorporato, con tasto dedicato sul telecomando. Ormai
 molti lo conoscono grazie alle due serie tv più famose: House of Cards e
 Orange is the new black (non a caso The shu prende il nome dalla cella 
di isolamento del telefilm). Sono però le uniche che non vedremo su 
Netflix. «Ma abbiamo molte altre serie originali a disposizione per gli 
italiani e stiamo negoziando con diverse compagnie di produzione perché 
vogliamo avere contenuti locali», rassicura Reed Hastings, il fondatore,
 che incontriamo nel gigantesco quartier generale dove si cambia il modo
 di guardare la tv. E da quest’anno non ci saranno solo più le 
serie gioiello (da Marco Polo, a Daredevil a Sense8) ma anche i film 
originali. Il primo, Beasts of no nation, già al Festival di Venezia, 
debutta sia nelle sale che online il 16 ottobre. E potrebbe essere 
proprio questa la data di lancio del servizio streaming in Italia. «Produrremo
 sempre più film, ci sentiamo abbastanza sicuri per affrontare il mondo 
del cinema », promette Hastings, che nel 1997, insieme a Marc Randolph, 
ha fondato quella che all’inizio era una compagnia che noleggiava dvd. 
Oggi Hastings è l’amministratore delegato di un gigante con oltre 65 
milioni di abbonati nel mondo e una quotazione in borsa da 33 miliardi 
di dollari. Quest’anno il valore delle azioni è più che raddoppiato ma 
lui precisa: «Non abbiamo un grande profitto, perché lanciare il 
servizio in altri territori è molto costoso ». Lo incontriamo nella saletta Giungla 
d’asfalto, perché a Netflix ogni stanza e ufficio portano il titolo di 
un film o un telefilm. Le scrivanie sono alte, spesso si lavora in 
piedi. Una gigantesca lavagna invita gli impiegati a scrivere le proprie
 idee. Tutte vengono vagliate. Sui muri stampe giganti di scene da 
Breaking bad, Il Gladiatore, House of cards. «Qui lavorano soprattutto
 ingegneri, 1.400. Mentre nei nostri uffici di Beverly Hills siedono 
creativi e responsabili del marketing», spiega Marlee Tart, che ci guida
 in giro per la palazzina. Accanto a questa, altre due costruzioni, 
nuove di zecca, colonizzate da Netflix. Per girare tra gli uffici si 
usano piccole golf car. L’edificio
 è dotato di diverse cucinette con Nutella, frutti di bosco e 
distributori di popcorn e dove si servono colazione e pranzo. «Non la 
cena. È meglio andare a casa e stare con la propria famiglia », spiega 
Hastings. Che riassume la cosiddetta “ Netflix culture” con due parole:
 libertà e responsabilità. «Ognuno prende le ferie che vuole, non c’è un
 tetto. Desidero che i miei impiegati si impegnino non per ubbidire al 
loro capo, ma perché ci tengono. Io, poi, dò il buon esempio e prendo 
spesso vacanze. Sono appena tornato da Maiorca», sorride increspando 
l’abbronzatura. I rivali Berlusconi e Murdoch non sembrano 
impensierirlo: «Costiamo molto meno di Sky e Mediaset. La concorrenza 
non ci spaventa. So che Berlusconi e Murdoch si sono incontrati per 
parlare di Netflix, ma io non ho avuto contatti con loro», precisa. E
 la tv tradizionale, con palinsesti e pubblicità? «Tra vent’anni sarà 
morta. Sparirà come il telefono fisso. E tutto l’intrattenimento si 
trasferirà online».

 
 

 
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